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"Araba fenice", «condannare i capi della holding edilizia»

REGGIO CALABRIA «Al fine di valutare appieno l’estrema gravità delle condotte in contestazione, non deve dimenticarsi che più crescono e più si consolidano le consorterie di tipo mafioso, più arret…

Pubblicato il: 22/04/2015 – 15:21
"Araba fenice", «condannare i capi della holding edilizia»

REGGIO CALABRIA «Al fine di valutare appieno l’estrema gravità delle condotte in contestazione, non deve dimenticarsi che più crescono e più si consolidano le consorterie di tipo mafioso, più arretra lo spazio di libertà di ciascuno e più aumenta lo stato di insicurezza della collettività e di malessere della democrazia, fino all’ipotesi estrema dell’azzeramento dello Stato di diritto per effetto della corrispondente affermazione delle più gravi forme di eversione e destabilizzazione insite nei sistemi criminali di tipo mafioso». Con il gup che sarà chiamato a giudicare le sue pesantissime richieste di condanna per i 35 imputati del procedimento Araba fenice, il pm Giuseppe Lombardo ci tiene a non lasciare margine di ambiguità alcuno. Al centro del procedimento, ci sono uomini e donne che, a vario titolo, sarebbero espressione di storiche cosche di ‘ndrangheta.

 

LE RICHIESTE 

La pena più alta è stata chiesta per l’imprenditore Giuseppe Stefano Tito Liuzzo, cuore operativo della holding criminale, cui vengono contestati diversi capi di imputazione per i quali il pm ha rispettivamente chiesto diciotto anni più quindicimila euro di multa, quattro anni, otto anni e ottomila euro di multa, tre anni e otto anni, per un totale di trentotto anni di reclusione, scesi a 30 per i limiti massimi di custodia imposti dal codice. Sempre per lo stesso motivo, si limita a 30 anni, la richiesta di pena avanzata per i singoli capi di imputazione contestati a Natale Assumma, cognato e factotum di Liuzzo, per i quali il pm ha chiesto rispettivamente quattordici anni di reclusione e diecimila euro di multa, otto anni di reclusione  e diecimila euro di multa, tre anni di reclusione e sei anni di reclusione più settemila di multa. Ma pesante è anche la condanna chiesta per quello che viene considerato il suo consigliori, l’avvocato Mario Giglio, di recente mandato ai domiciliari grazie alla sentenza della Corte costituzionale che non vincola alla custodia cautelare per i concorrenti esterni, ma a giudizio come partecipante ad associazione mafiosa. Per lui – sulla cui posizione si è dilungato in sede di requisitoria – il pm ha chiesto 12 anni di reclusione.  E’ invece di 20anni la condanna chiesta per Saverio Autolitano e Francesco Morello, mentre è di 19 anni di carcere la pena chiesta per Antonino Pavone.Il pm ha chiesto inoltre che venga condannata a 16 anni di reclusione più 17 mila euro di multa Francesca Marcello,  una delle commercialiste che per il Tribunale di Reggio si occupa di beni confiscati, che avrebbe permesso a Liuzzo di disporre liberamente della Euroedil, che in precedenza gli era stata confiscata. Minore, ma ugualmente severa è invece la pena chiesta per il suo collaboratore, Francesco Creaco, per il pm da condannare a dieci anni  e diecimila euro di multa perché si sarebbe messo al servizio di Liuzzo, tanto da consigliargli una rivisitazione societaria per evitare eventuali sequestri o confische. Sempre a 16 anni di carcere sono per il pm da condannare  Vincenzo Latella , Salvatore Saraceno e Domenico Serraino, tutti considerati qualificata espressione degli omonimi clan, mentre 14 anni di carcere sono stati chiesti invece per Serena Assumma. Per il pm, dovrebbero invece passare 12 anni dietro le sbarre, considerata la continuazione fra i reati loro contestati, Antonio Calabròe Giacomo Santo Calabrò, mentre è di 10 anni e sei mesi, più 10mila euro di multa la pena invocata per Giovanni Ficara. A 10 anni – stando alle richieste del sostituto procuratore della Dda reggina – dovrebbero essere condannati Antonio Gozzi, Giuseppe Gozzi e Francesco Giuseppe Masucci per i quali è stata chiesta anche una sanzione pecuniaria da 10mila euro ciascuno, mentre è di 9 anni la pena chiesta per Teresa Masucci, Caterina Fontana, Silvana Latella, Demetrio Nicolò, Fortunata Nicolò, Angela Saraceno, Giuseppe Mangiola e Giuseppa Vazzana per i quali è stata chiesta anche una multa da 8mila euro ciascuno. Otto anni più 11 mila euro di sanzione sono stati invocati invece per Osvaldo Salvatore Massara , mentre per il pm è da condannare a 5 anni più 10 mila euro di multa Antonio D’Agostino. Quattro anni più 5mila euro di multa è la pena chiesta per Salvatore Laganà, Antonino Latella, Antonino Lo Giudice, Antonino Nicolò, Ilenia Cardia, mentre se la cava con una richiesta di condanna a tre anni più 5mila euro di multa Francesco Chirico. Richieste tutte pesantissime che, a partire dalla prossima udienza, toccherà agli avvocati tentare di smontare e infine al gup valutare.

 

‘NDRINE COME CELLULE TERRORISTICHE 

«Sono famiglie, quelle oggetto del presente processo, che assumono tutte le caratteristiche di vere e propri congreghe delinquenziali – tuona in aula il pm – centro d’imputazione di interessi affaristici e illegali inconciliabili con quelli dello Stato e delle sue istituzioni, alla stregua di cellule terroristiche con finalità eversive e destabilizzanti dell’ordine democratico». Formazioni sociali degenerate e devianti, che per il sostituto procuratore della Dda reggina, possono e devono essere smembrate «perché humus fertile per la coltivazione del crimine come scelta esistenziale e per l’allevamento e l’addestramento dei nuovi adepti come soggetti da destinare al comando o alla partecipazione ad imprese criminali». È questa la reale natura di un fenomeno che non può oggi né potrà in futuro «stemperarsi in fisiologici processi si assorbimento sociale», ma soprattutto le cui strategie criminali – spiega dunque il pm – sono «in grado di sovvertire gli ordinari equilibri che caratterizzano le democrazie compiute con l’irruzione nella moderna e progredita realtà sociale italiana di modelli organizzativi di tipo militare che evocano tristemente forme del passato».

Allo stato, aggiunge ancora il pm non è assolutamente azzardo ipotizzare l’esistenza né di «veri e propri casati di ‘ndrangheta, armati all’inverosimile, che mutuano dai casati nobiliari di memoria medioevale non solo blasoni, di cui in questo caso bisognerebbe vergognarsi, ma soprattutto una forma di orgoglio di appartenenza in quanto espressione di potere, rispetto, ricchezza e prestigio», né quella di “consorterie di ‘ndrangheta concepite come autentiche monarchie ereditarie, con il mafioso monarca che si pone al di sopra delle leggi e si fa egli stesso fonte di legge, decidendo con altri “regnanti” le sorti non solo delle cose, ma anche delle persone, oggetto di scelte che, come nelle migliori tradizioni monarchiche, assicurano la continuità della stirpe nobile-mafiosa e la conservazione e moltiplicazione delle ricchezze conquistate e accumulate”. Strutture sociali antiche, vetuste, obsolete ma ancora in grado di incidere con tutto il loro peso sull’attualità, piegandone meccanismi, regole e prassi.

 

UNA HOLDING ESPRESSIONE DEL SISTEMA

È quanto dimostra l’inchiesta Araba fenice, che ha mostrato come la suddivisione scientifica e concordata del settore dell’edilizia privata fosse stata gestita da una holding criminale su diretto mandato e previo accordo dei clan di tutta la città. Dai Fontana-Saraceno, egemoni nella parte nord della città, ai Ficara-Latella, predominanti nella parte sud, passando dai Condello del quartiere di Archi ai Serraino-Rosmini-Nicolò, ai Lo Giudice di zona sud, fino agli Audino, famiglia che fa sempre orbita nella galassia De Stefano-Tegano ma ha la propria storica roccaforte nel quartiere di San Giovannello, tutti i clan erano parte di quella ben organizzata e strutturata «cabina di regia», che tramite imprese e professionisti compiacenti si sarebbe per anni accaparrata i più importanti lavori edili della città di Reggio Calabria.

Una suddivisione che, secondo l’ipotesi accusatoria, altro non  è che la prova concreta, tangibile di quell’ipotesi investigativa che ha ispirato diverse inchieste e dibattimenti che neg
li ultimi anni hanno portato alla luce i nuovi assetti e le nuove strutture nati dalla pax mafiosa del ’91, quando la nascita della super-associazione ha sancito la fine della guerra fra clan che in meno di cinque anni è costata alla città oltre seicento omicidi.

E di quella holding tutti gli imputati oggi a giudizio in abbreviato sono a vario titolo espressione, per questo vanno puniti con pene severe e senza concedere loro alcuna attenuante.

 

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

 

 

 

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