COSENZA La voce è rotta. A dire il vero, è andata via già da un po’. L’aria sembra essersi rarefatta, nebulizzata fra i decibel di ugole e speaker e l’odore acre delle torce luminose. Un’orgia di colori si è impossessata dell’anima di diecimila cosentini estasiati più che deliranti. Tirano i bandieroni producendo quello strepitio che soltanto chi ha frequentato le gradinate di uno stadio può riconoscere. L’unico spazio fisico possibile per metabolizzare quanto sta accadendo rimane il cielo. Limpido manto stellato di una notte di metà primavera. Guardi in alto e ti accorgi che il dio degli ultimi una volta tanto ti ha sorriso. Tirato per la giacchetta dai lupi che ormai gli abitano di fianco.
Tuo padre che per la prima volta, per mano, ti ha condotto al San Vito, tuo nonno, l’amico del quartiere e quello delle vacanze, quell’altro che non conoscevi ma che, anche lui, se n’è andato prima del tempo. È allora, solo allora, che ti accorgi che la catarsi è completa, che la storia ti appartiene, che la gioia è infinita perché il tuo capitano, in mutande, in mano tiene la coppa appena vinta ma la lascia andare per sventolare i vessilli rossoblu. Un solo battito, un solo sentire, un unico respiro.
È il momento di mettere a fuoco i particolari, ridare ossigeno ai neuroni e alimentare la galleria dei ricordi. Arrivano da tutti i quartieri, arrivano da tutta la sterminata provincia, arrivano da mezza Italia. Flessioni dialettali differenti, dialetti differenti. Ci sono i genoani e gli atalantini, gli anconetani e i veronesi (sponda Virtus), i casaranesi. Sono presenti per tributare gli onori ad una tifoseria che non ha mai conosciuto i fasti della massima serie eppure è conosciuta in tutta l’Europa del tifo. Di quel Cosenza Calcio capace di portare per la prima volta in Calabria un trofeo nazionale quale la Coppa Italia di Lega Pro, esattamente a trentadue anni di distanza dall’unica coppa internazionale vinta da un compagine calabrese, il Trofeo Anglo-Italiano, bocconcino vintage del calcio che fu. Stranezze del fato, gargarismi del destino a ridosso di quel 25 aprile omaggiato dagli ultrà di casa che intonano, come da queste parti di sovente avviene, Bella Ciao. Persino Rai Sport si è ricordata dell’evento. Di questo ribelle angolo di provincia del Bel Paese che continua, con pochi mezzi e molti ideali, a rigettare gli innesti bionici del calcio moderno con tutte le sue regole fatte di divieti e merchandising, tessere e dirette, di emozioni di plastica. Strabuzzano gli occhi gli inviati di mamma Rai, non ci possono credere quelli della Lega di categoria, e persino dall’entourage del Como che la seria A l’hanno vista eccome – i cui ultrà, afoni e destrorsi, mestamente abbandonano gli spalti prima del triplice fischio non senza aver fatto incetta di foto – dicono che questo spettacolo appartiene ad altri palcoscenici. Perché ora, il più grande spettacolo dopo il Big Bang, siamo noi.
E pensare che la favola ha avuto inizio un pomeriggio di ottobre, proprio lì al Ceravolo, nella tana dei rivali più acerrimi, vincendo tre reti a uno dopo mezzo secolo. È quasi mezzanotte quando inizia l’esodo. In migliaia sciamano dallo stadio per le strade, caroselli improvvisati, nel flusso non si avvertono più frizioni e frazioni, le fazioni presenti finanche in una partita come queste. Pare che nessuno voglia tornare a casa, e d’altronde come fai a tornare in una notte come questa? Le piazze del centro si animano di capannelli di supporter, un panino, una birra, un bicchiere di vino.
Nel cuore di Cosenza vecchia, uno dei gruppi del tifo organizzato festeggia con un concerto i suoi trent’anni, è presente la squadra che dichiara amore eterno alla città. Guardi di nuovo il cielo. Tender is the night. Ritorni padrone del tuo io ed ebbro di cotanta bellezza rammenti addirittura i versi di Hermann Hesse, ne Il lupo della steppa. «Nel ritegno del dolore, nel cuore del fuoco, gli immortali mi attendono». Ci attendono. A noi, il popolo dei lupi.
Edoardo Trimboli
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