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I dubbi della commissione Antimafia sull'aggressione al pm Musarò

REGGIO CALABRIA Si è indagato fino in fondo sull’aggressione in carcere di cui è stato vittima il pm Giovanni Musarò? La commissione parlamentare antimafia è convinta di no, tanto da non esitare a …

Pubblicato il: 24/04/2015 – 16:05
I dubbi della commissione Antimafia sull'aggressione al pm Musarò

REGGIO CALABRIA Si è indagato fino in fondo sull’aggressione in carcere di cui è stato vittima il pm Giovanni Musarò? La commissione parlamentare antimafia è convinta di no, tanto da non esitare a incalzare sul punto il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo, Alberto Pazienti, e il suo sostituto Renzo Petroselli che ha materialmente curato l’indagine sulla testata rifilata a Musarò dal boss Domenico Gallico durante un colloquio in carcere. Un episodio che il pm, di recente audito in commissione, ha ricordato sottolineando di aver «creduto di morire», ma mai è stato preso in considerazione – fanno notare i parlamentari – come tentato omicidio. Tanto meno sono state vagliate le possibili connivenze che hanno aiutato il boss a portare a termine la sua vendetta.

 

METODO MAFIOSO O VENDETTA?
Con quattro ergastoli definitivi sulle spalle, cui se ne aggiunge un quinto rimediato al momento solo in primo grado, Gallico – per i magistrati di Viterbo – è un uomo che ormai non ha nulla da perdere e nulla da guadagnare. Per questo, non avrebbe esitato ad aggredire il pm Musarò – “colpevole” di aver guidato l’indagine che ha portato all’arresto di molti dei familiari del boss, inclusa la madre novantenne e un nipote di tredici anni – dopo averlo attirato in carcere con in pretesto di un interrogatorio. Un reato ordinario per le toghe viterbesi, che mai è stato posto all’attenzione della Dda perché – spiega Petroselli – «questo non rientra in alcuno dei casi per i quali è prevista la competenza della Dda. Se un mafioso, uno ‘ndranghetista o un appartenente ad associazioni criminose commette un reato qualunque, non per questo è competente la Dda». Una risposta che lascia interdetta la presidente della commissione Rosy Bindi, che ai due magistrati di rimando chiede: «Scusate, ma qual era l’obiettivo che poteva avere il Gallico nell’afferrare per il collo il Musarò, se non quello di avere dei vantaggi come persona accusata di 416-ter e al 41-bis?». Supportato da Pazienti, il pm Petroselli ribadisce che si sarebbe trattato di una “normale” vendetta, culminata in «lesioni personali», mentre il suo procuratore gli dà manforte sottolineando: «È una vendetta vera e propria, fatta dal mafioso nel momento in cui gli è capitata l’occasione, contro una persona che – dice lui – gli era antipatica». Ma né la presidente Bindi, né la commissione sembrano convinti.

 

LA POSIZIONE DEGLI AGENTI DI POLIZIA PENITENZIARIA
Anche perché c’è un ulteriore punto di perplessità che riguarda ruolo, operato e possibili connivenze dei tre agenti della polizia penitenziaria che avrebbero dovuto vigilare su quel colloquio – come espressamente chiesto da Musarò – ed invece si trovavano fuori dalla sala. Circostanze che nelle relazioni di servizio hanno tentato di negare, per poi giustificarle – riferisce alla commissione Petroselli – con «pressioni, telefonate, interventi da Roma, presumo che intendessero il DAP», e che sono costate a tutti un rinvio a giudizio per violazione della consegna – ovvero degli ordini ricevuti – e falso in atto pubblico. Per i parlamentari però sotto potrebbe esserci qualcosa di più. Per questo chiedono con insistenza se sui tre le indagini siano state approfondite, se siano stati fatti accertamenti bancari alla ricerca di possibili bonifici, ricerche su luoghi di origine, parentele e precedenti luoghi di lavoro, con il proposito di scoprire se ci fossero contatti fra Gallico e i tre.

 

POSSIBILI CONNIVENZE
«Io – si difende Petroselli – ho avuto modo di sentire per due volte tutti e tre gli imputati in due occasioni nella fase delle indagini preliminari e nel dibattimento, allorché sono stati sentiti come testi. Erano stati considerati, infatti, parte lesa del delitto di resistenza perché avevano riportato delle lesioni al momento dell’intervento per bloccare il detenuto. In questa circostanza vi erano state delle lesioni e si era sostenuto da parte dell’accusa che vi era stata una violenza, sia pure contenuta, da parte del detenuto anche nei confronti degli agenti intervenuti. I soggetti erano stati, quindi, considerati persone offese dal delitto di resistenza. Su questo punto, per la verità, il giudice non ha seguito l’impostazione dell’accusa e ha ritenuto, forse correttamente, in base alle emergenze del dibattimento, che non vi fosse stata alcuna violenza voluta nei confronti degli agenti, perché il detenuto si era immediatamente bloccato subito dopo l’intervento dell’avvocato. È stato, quindi, assolto per questo fatto, ma condannato per le lesioni». Solo in seguito sarebbero emerse le false attestazioni dei tre agenti, ma dagli accertamenti mai sarebbe venuto fuori un rapporto diretto con Gallico, perché i poliziotti – aggiunge Petroselli – «ruotano periodicamente ogni 6-8 mesi. Solo uno di questi l’aveva conosciuto circa dieci anni prima, allorché prestava servizio in un 41-bis di Spoleto o di un’altra città. Aveva avuto modo per poco tempo di essere a contatto con lui, ma parliamo di un fatto di dieci anni prima, perché il Gallico è detenuto da tempo notevole».

 

AUDIZIONE AL VETRIOLO
Il problema – mettono in luce i parlamentari – è che molti degli accertamenti necessari non sono stati fatti. Un dato che la presidente Bindi non esita a sottolineare, provocando la reazione del procuratore Pazienti che replica: «Voi pensate che le indagini si facciano in una maniera diversa dalla realtà. Questo è il punto». Una risposta velenosa cui la presidente della commissione non esita a rispondere a tono: «No, noi pensiamo che le indagini andrebbero fatte e qualche volta vediamo che non vengono fatte. Questa è la differenza. Questo caso riguarda uno dei più noti mafiosi che tenta di uccidere il magistrato che ha infierito su di lui e lei lo considera uno dei tanti procedimenti che arrivano alla procura? Scusatemi». Così come, chiarisce Bindi, vanno segnalati alla Dda i reati di sua competenza, inclusa l’aggressione a uno dei magistrati più esposti nella lotta alla ‘ndrangheta, oggetto di un’aggressione che per i parlamentari aveva uno scopo preciso.

 

I PM DI VITERBO SI DIFENDONO
«Quando uno è parte lesa dal soggetto sul quale sta indagando e viene da lui aggredito, il risultato è che deve astenersi dagli ulteriori procedimenti giudiziari – afferma la presidente –. Volete una conseguenza più grossa di questa? Scusatemi, abbiate pazienza. Io non sono una tecnica come voi, ma nel 1990 Domenico Gallico aveva chiesto di rendere dichiarazioni spontanee e ne aveva approfittato per dare uno schiaffo al presidente della Corte d’assise, costringendolo ad astenersi. Si tratta di un metodo perpetrato da questo signore, scusatemi. Abbiate pazienza. Noi avremo ricostruito tardivamente, come dite voi, ma abbiamo ricostruito così». Il clima è teso, i magistrati di Viterbo fanno muro e non cedono di un millimetro: l’aggressione a Musarò – sostengono – non ha nulla a che fare con il metodo mafioso, al massimo – conclude Pazienti – «è passionale, tutto sommato. La vendetta è una passione». Un’affermazione che lascia basita la presidente Bindi, strappandole – da verbale – semplicemente un «meno male che questa audizione non è segreta».

 

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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