REGGIO CALABRIA Suona come un botta e risposta a distanza fra i giudici reggini e la Corte di Cassazione i provvedimenti giudiziari che attengono l’esistenza o meno della cosca Pelle e che in Giuseppe Pelle vedrebbe il suo boss. Un dato certo per la magistratura reggina, interpretabile invece per la Suprema Corte, che proprio mettendo in discussione l’assunto hanno annullato l’aggravante mafiosa contestata all’ex consigliere regionale Santi Zappalà, gli hanno restituito fino all’ultimo centesimo dei suoi beni sotto sequestro e hanno ordinato alla Corte d’appello di Reggio Calabria di processarlo nuovamente. E insieme a lui, tutti gli esponenti della cosca Pelle che in precedenza erano stati condannati.
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE
«Evocare un’organizzazione criminale temibile – spiegavano i giudici della Cassazione in sede di motivazione – non contribuisce a provarne la sua effettiva esistenza, si deve osservare che l’utilizzazione, ai fini di prova dell’esistenza della cosca, delle precedenti condanne riportate da Giuseppe Pelle e i suoi congiunti, non fornisce un elemento di prova ulteriore ma dimostra che il dato è equivoco: Giuseppe Pelle è stato sì condannato per la partecipazione alla ‘ndrangheta, ma senza che in quella esistenza venisse affermata l’esistenza di una cosca Pelle; anzi è pacifico che nessuna sentenza ha mai affermato l’esistenza di una cosca Pelle». Una clamorosa strigliata, compendiata da un lungo elenco di appunti – «mancano quasi del tutto accertamenti di polizia giudiziaria, anche minimi», facevano notare i giudici, ma anche «prove di carattere dichiarativo» – che la magistratura reggina ha incassato in silenzio. Almeno fino all’operazione “Reale 6”.
IL BOSS NON È UN ATOLLO
Al gip Cinzia Barillà servono oltre cento pagine per smontare pezzo per pezzo le argomentazioni della Cassazione, non solo esaminando intercettazioni e elementi già a disposizione dei giudici, ma anche richiamando quanto emerso nelle indagini delle Dda di Reggio Calabria, Milano e Torino a proposito del potente clan e sul suo capo, Giuseppe Pelle. Perché – afferma il gip nell’ordinanza di custodia cautelare – la possibilità di attribuirgli un’alternativa veste fra «’ndranghetista saggio e grande consigliere» oppure «capo di una cosca criminalmente attiva nel suo territorio» non ha ragione d’essere. «Peppe Pelle “Gambazza” non è e mai può considerarsi una monade, un atollo di ‘ndrangheta isolato con capacità decisionali “apicali” da maggiorente (..) che si staglia in un mare di incontaminato di suoi congiunti e prossimi titolari del potere mafioso esercitato in quel territorio, per dire la sua o esercitare il suo potere in via estemporanea, ad intermittenza».
Al contrario, spiega il gip, il suo ruolo all’interno dell’organizzazione si evince dal fatto che possa permettersi il lusso di «attivarsi ad intermittenza», senza necessariamente dover mantenere un continuo contatto con gli uomini del clan. E non è vero – dice a chiare lettere il gip – che non esistono tracce storiche che dimostrino il radicamento della cosca Pelle. Al contrario numerosi atti giudiziari «confutano la tesi che il potere mafioso in capo al Pelle Giuseppe si esaurisca in una mera “autorevolezza” mafiosa ereditata dal padre Antonio Pelle, a sua volta portatore della stessa».
GALLONI CRIMINALI
Un dato oltre che giuridico, anche meramente logico per il gip se è vero che «l’autorevolezza criminale e ‘ndranghetista di un soggetto si coltiva e cresce con le azioni criminali e non certo con “i consigli” in materia di risoluzione dei conflitti o potenziali faide o nella imposizione delle doti o fiori di ‘ndrangheta”» Antonio e Giuseppe Pelle – continua il giudice – sono giunti ad una determinata posizione gerarchica «non perché hanno convinto con la “saggezza” delle loro decisioni, ma per il potere mafioso espresso dalle azioni criminali commesse da loro e dai loro uomini». Una regola basilare della ‘ndrangheta nel suo complesso che «non conosce cursus honorum diverso dalla commissione di azioni criminali, in proprio ed attraverso i propri subordinati, che consentono al personaggio apicale di accrescere la propria “autorevolezza” al punto da essere “consultato” anche in consessi più ampi e di maggior spessore da quello proprio locale». Senza una solida base, i Gambazza non avrebbero mai potuto accedere ad incarichi di peso e pregio nella cosiddetta società maggiore «perché ove così fosse stato la “discesa” criminale dei Pelle all’intero di quei consessi, dal punto di vista mafioso, più “autorevoli” sarebbe stata inesorabilmente decretata, senza possibilità di sorta di far valere la “saggezza” di alcuni dei suoi membri». Del resto, la storia del clan Pelle e dei suoi membri, ricorda ancora il giudice Barillà, emerge da innumerevoli atti giudiziari, fin dal 1968. Indagini sfociate in sentenze da cui emergono «risultanze di tale evidenza e straordinaria capacità dimostrativa che non consentono, si è tenuti a ribadirlo, di rilegare il ruolo di Pelle Giuseppe, a quello di “consigliere” della ‘ndrangheta: bensì di capo-promotore attivo di una cosca di riferimento divenuta, per la sua capacità delinquenziale in loco e per il potere così “trasmesso” ai propri capi, un personaggio fondamentale nella gestione dei rapporti con gli altri clan variamente distribuiti nel territorio nazionale».
a.c.
x
x