REGGIO CALABRIA “Prima di chiederci a che punto siamo noi magistratura, terzo potere dello Stato, nella lotta alla ‘ndrangheta toccherebbe chiedere a che punto sono, primo e secondo potere? Abbiamo smesso di scherzare con i sistemi criminali?”. È con una frase al vetriolo, che arriva dritta al centro delle contraddizioni del sistema Paese che il pm della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, svela tutta la dura realtà della vita del magistrato italiano, soldato di prima linea nella lotta alle mafie, ma dotato di armi spuntate da quello stesso governo che della legalità, almeno formalmente, della legalità ha fatto la sua bandiera. Ospite di uno degli appuntamenti messi in programma dall’associazione Riferimenti, assieme al collega della Dda di Catanzaro, Pierpaolo Bruni, Lombardo – generalmente restìo a interventi e uscite pubbliche perché, dice, “di parole ne abbiamo dette fin troppe – ha deciso di parlare alla gente anche per denunciare quegli “interventi normativi senza logica, che si richiamano alla Costituzione solo quando conviene”. Il riferimento, per nulla velato, è alle novità in tema di giustizia introdotte dal governo, dalla riforma del 416 ter che disciplina lo scambio politico mafioso, fino alla responsabilità civile dei magistrati. “Provvedimenti spot” concorda il pm Bruni, che dice chiaramente che uno dei principali problemi nella lotta ai sistemi criminali sono quelle leggi “salutate con toni entusiastici, ma in realtà meri spot. Mediaticamente – sottolinea – si vendono molto bene, ma anche la Cassazione ne ha già riconosciuto l’inefficacia”. Parte invece da lontano, da una sentenza della Suprema Corte di Palermo del tardo ‘800 il pm Lombardo per spiegare quanto ritardo ci sia nella lotta al sistema mafia. All’epoca, i giudici condannarono un contadino, qualificandolo di fatto come concorrente esterno, perché aveva fornito cibo e acqua ai “malfattori” – così venivano qualificati i picciotti all’epoca – allora perseguiti. “Siamo in ritardo di 140 nella lotta ai sistemi criminali”, dice Lombardo. E l’impressione – lascia intendere – è che nessuno abbia seriamente intenzione di fare nulla per recuperarlo. Parole pesanti, ma ancorate ad esempi concreti, a partire da quel 416 ter che disciplina lo scambio elettorale politico- mafioso, riformato in modo tale da renderlo impossibile da provare. “Sarebbe bastato – tuona Lombardo – aggiungere alla dicitura “denaro” già prevista nella fattispecie, semplicemente “altre utilità” ma si è preferito stravolgere la norma, introducendo una probatio tendenzialmente impossibile”. E per lui, che a quella commissione sulla riforma del reato è stato chiamato a partecipare, la frustrazione è doppia. Anche perché la strada da seguire per rendere perseguibile un reato che, come un cancro, ha minato dall’interno il sistema Paese, era stata già tracciata. E da tempo. “Da quasi vent’anni, i giudici di merito hanno segnalato che l’unico problema riguardo quella norma è che un soggetto con i soldi in mano pronto a pagare i voti che sta comprando non lo troverai mai, anche perché è interesse del potere mafioso strappare un pagamento frazionato, anche per mantenere il potere di condizionamento su un soggetto che sta nelle istituzioni”. Eppure, oltre vent’anni di sentenze di ogni ordine e grado non sono servite, come non sono serviti i ripetuti appelli – arrivati da larga parte della magistratura – a una seria depenalizzazione di reati che ingolfano le procure ma non hanno o non hanno più ragione di esistere. Ma il punto dolente, sottolinea un amareggiato Lombardo, è l’effetto di una innovazione normativa come la responsabilità civile per giudici e magistrati, sul disastrato mondo della Giustizia, dove – ad esempio – un unico Tribunale del Riesame è chiamato ad esaminare tassativamente entro trenta giorni – limite di recente ribadito e sottolineato – un maxiprocedimento di decine di migliaia di pagine. “È di fatto la fine dei maxi-processi” afferma il pm della Dda reggina, mettendo il dito su una contraddizione che né governo né Parlamento hanno affrontato, nell’approvare le nuove norme: in che modo processi agili, brevi, semplici potranno avere ragione di un fenomeno complesso come la ‘ndrangheta, che di anno in anno di commissione in commissione, vengono presentati come sempre più complessi, più potenti, più ramificati? E la risposta è implicita nel ragionamento – forse sibillino per i non addetti ai lavori – con cui Lombardo spiega lo schizofrenico slancio normativo: “Noi siamo arrivati ad individuare due manifestazioni principali del fenomeno mafioso, la mafia e la corruzione, che altro non sono che una duplice espressione di uno stesso sistema criminale integrato e circolare. Ad esempio, si crea l’emergenza, per gestire l’urgenza. Da anni, da diversi processi viene fuori che la corruzione serve alla mafia come alla politica corrotta e la politica corrotta serve alla mafia come la corruzione. Se non spezziamo questo circolo, dove vogliamo andare?” Una domanda che il pm reggino lascia alla platea ma senza dimenticare di citare quella frase che è stata del procuratore Paolo Borsellino e per molti magistrati è diventata una stella polare: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.
Lombardo la sua strada l’ha scelta da tempo, da tempo ha dichiarato guerra ai sistemi criminali in tutti i loro aspetti, e non solo quello visibile e militare, come da tempo, per questo, paga lo scotto di una vita blindata. Eppure non ha dubbi: “Ho la sensazione che la strada sia ancora lunga, però ho una certezza. Chi ha intenzione di sottrarsi al giudizio collettivo non sarà mai mio compagno di viaggio”.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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