“Non esiste l’amore malato”. Ne è convinto e ne dà una spiegazione scientifica il criminolgo clinico, Sergio Caruso. Il giovane calabrese, docente al master di criminologia organizzato dal Miur a Catanzaro e collaboratore della cattedra di Neuropsichiatria di “Roma 3”, ha cercato di leggere con occhio da esperto l’omicidio-suicidio di Rende nel quale un carabiniere ha accoltellato a morte la moglie e poi si è ucciso con la pistola di ordinanza. Dal recente caso di Arcavacata ad altri tristi fatti di sangue tra le mura domestiche che hanno colpito la nostra regione.
Negli ultimi tempi la Calabria è spesso teatro di tragedie familiari. L’omicidio-suicidio ad Arcavacata a Rende? Che cosa è potuto accadere?
“La nostra regione ultimamente è stata teatro di orribili tragedie. Fabiana Liuzzi, Maria Rosaria Sessa e Roberta Lanzino circa 26 anni fa, che hanno scosso molto l’opinione pubblica un po’ come succede in tutto il territorio nazionale, da Avetrana, a fino al recente caso di Motta Visconti, cade la convinzione illusoria che ci fa pensare e dire che qui non possono accadere certe cose, al Sud siamo tutti amici e parenti.nQuando dopo 8 anni di formazione nella Capitale sono venuto a lavorare in Calabria, molti mi dicevano: dotto’ qui certe cose non accadono, ‘sti fatti succedono a Milano a Roma, in America, purtroppo questi molti si erano sbagliati.nDire che cosa è potuto accadere senza aver fatto un analisi oggettiva, e letto le carte, è impossibile. Si può fare una comparazione con i delitti intrafamiliari, i “family murder”, ovvero il parenticidio. In alcuni casi la letteratura scientifica riporta che vi sono conflitti che da tempo logorano i componenti di tutta la famiglia e il delitto d’impeto – come in questo caso – è frutto di una lunga sofferenza della coppia, in cui la gelosia patologica, le incomprensioni e gli scontri sono sintomi di una sofferenza piu profonda, in altri casi vi sono nuclei di patologia non curati, non diagnosticati e non riconosciuti, già presenti in età evolutiva sotto forma di condotte sintomo sottovalutati dagli stessi componenti della famiglia. L’unica soluzione è la prevenzione in età evolutiva, a scuola, attraverso l’ascolto delle famiglie. Ma purtroppo si preferisce investire su altro.
La figlia minorenne era in casa al momento della tragedia. Come si può cercare di aiutarla?
“Un dramma nel dramma. Ovviamente questa ragazza dovrà fare un lungo percorso pedagogico e psicoterapico affinché riesca a elaborare con il tempo l’orrore che ha dovuto assistere e la disgregazione della sua famiglia. Bisogna che le persone che se ne prenderanno cura, assieme a i professionisti, e la scuola creino proprio un cordone emozionale e aiutino i minori ad andare avanti, in modo tale da ridurre l’impatto traumatico, e prevenire danni psicologici al fine che non diventino né perenni vittime, né futuri giustizieri”.
Anche in questo caso si parla di amore malato? E’ giusto parlarne?
“L’amore malato non esiste: è un’affermazione mediatica che va bene se lo usa un giornalista, diversamente se l’adoperano professionisti del settore mette in risalto la mancata acquisizione di strumenti clinico-forensi e tecnici per delineare una dinamica, come sostengo in un mio libro e nei convegni. L’amore è un’emozione bellissima, che rende liberi e non prigionieri, che crea fiducia e non possesso, e ci fa guardare insieme verso la stessa direzione, dicendo noi e non io e tu. Quando si crea il possesso – una gelosia patologica – quando si perseguita il patner e gli si spacca il naso e dopo si afferma il classico ti amo, si tratta di disturbi psicologici e in alcuni casi di vere e propie patologie che con il sentimento più universale del mondo non hanno nulla a che vedere”.
Non c’era, forse, intenzione di uccidere visto che il carabiniere ha ucciso la moglie con un coltello e non con la pistola d’ordinanza. Sarebbe stato in preda a un raptus?
“Da criminologo clinico avrei bisogno di più elementi oggettivi per delineare il fatto. Con certezza scientifica posso dire che il famoso raptus non esiste , è un’altra scusa o invenzione popolare usata da molto tempo quando non si hanno, anche in questi casi strumenti, metodologici per comprendere. Nulla accade per caso e un individuo non diventa pazzo per caso. I segnali di allarme della personalità oltre a essere pregresse sono a volte molto visibili. Comparando altri casi e facendo non un’analisi ma una riflessione, credo che si tratti di un delitto d’impeto, non premeditato scatenato dall’ennesimo conflitto di coppia, in cui anche l’arma assume il significato dell’azione d’impatto, in cui a differenza dell’arma da fuoco, diventa più istintivo dare sfogo alla rabbia in base al numero di coltellate inferte, overkilling, per legare per sempre a sé colei che voleva allontanarsi, la certezza del fallimento e la presa di coscienza di un gesto irreparabile portano al suicidio, e anche in questo caso come in tutti i casi vi è sempre una sofferenza pregressa, e mai una fatale coincidenza.
Dopo poche ore, dalla vicenda di Rende, a Nicotera, nel Vibonese, un ottantenne ha cercato di uccidere la sorella (che si è salvata) e poi si è ucciso?
“Gli anziani, come i minori, rappresentano la vulnerabilità e spesso sono bersaglio di maltrattamenti e violenze: è una dinamica in aumento. Un caso molto simile è accaduto a Scalea, la scorsa estate, dove a uccidere è stata un’anziana donna. Nel caso di Nicotera ritengo sia un altro dramma della sofferenza, che evidenzia probabili disturbi depressivi che – a volte – assieme alla solutine sociale e all’isolamento affettivo, come purtroppo spesso accade, innescano tragedie molto vicine a noi”.
Altro caso di cronaca a Cosenza. Un’insegnante di musica trovata morta in casa. Sospettato di averla uccisa il figlio minorenne.
“Ho seguito dalla cronaca, che molto spesso fa parte del mio lavoro, questa ennesima tragedia in cui il “presunto” matricidio rende ancor più triste il tutto. Un noto psichiatra della letteratura internazionale diceva: la famiglia si può immaginare come un fiore, una tomba, una ragnatela, una prigione. In questa frase si può comprendere come una dimensione – che dovrebbe proteggere, accudire e fornire emozioni – spesso cambia volto e diventa un luogo di sofferenza, soprattutto quando subentrano genitorialità secondarie in seno alle adozioni in cui il nuovo nucluo famigliare dovrebbe fare mesi, non ore, di affiancamento appunto per comprendere determinati disagi. Quando un figlio uccide un genitore, percepisce lo stesso come un ostacolo alla propia libertà, alla propia realizzazione, cova il risentimento e aumenta l’anestesia emozionale e affettiva. Si crea l’afasia, cioè il non parlare e tenersi tutto dentro tutto, la frustrazione diventa rabbia fino a che gli scontri frequenti non bastano più e uccidere diventa un modo per liberarsi, per non permettere al proprio io di disgregarsi, sempre in soggetti patologici in questi casi purtroppo molto frequenti. In Italia ricordiamo Pietro Maso in provincia di Verona, ed Erika De Nardo (di origini calabresi, ndr) e Omar Favaro a Novi Ligure. La diagnosi associata è il disturbo narcisistico della personalità antisociale. Ma nel caso specifico dell’insegnante di musica ancora siamo nel campo delle ipotesi: il figlio è solo sospettato. La giustizia farà il suo corso e speriamo che il ragazzo sia estraneo alla vicenda”.
Sono aumentati gli omicidi tra le mura domestiche. Perché?
“Se nel 2013, l’anno nero, quasi 150 donne sono state uccise da Nord a Sud, se le violenze sessuali e gli abusi non si contano più, la triste verità è solo una: in Calabria e in gran parte della Nazione non si investe sulla prevenzione in età evolutiva. Sia attraverso centri di ascolto a scuola in cui si possono osservare i segnali di allarme della personalità dei minori e in équipe preparate per aiutarli. Non ci sono mai fondi disponibili per creare centri di ascolto per fami
glie. E’ l’educazione affettiva l’antidoto efficace soprattutto in territori a rischio. E’ piu facile far costruire una nuova piazza che avere pochi fondi per aprire un centro di prevenzione. Quando succedono queste tragedie siamo di fronte al fallimento di tutti, all’omessa prevenzione, al mancato invio, e al tarlo ormai latente del si poteva fare e non si è fatto. Il mio maestro, il professore Matteo Villanova della cattedra di Neuropsichiatria e Criminologia dell’università degli studi di “Roma 3” ripete sempre: “Una scuola aperta oggi è un carcere chiuso domani”.
Mirella Molinaro
m.molinaro@corrierecal.it
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