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«Porto con me l'onestà morale di Falcone»

LAMEZIA TERME A Giovanni Falcone non piacevano le parole. Ma i fatti. Era solito accompagnarsi sempre con i documenti, con le prove. Il generale Angiolo Pellegrini ne conserva un ricordo indelebile…

Pubblicato il: 08/05/2015 – 16:59
«Porto con me l'onestà morale di Falcone»

LAMEZIA TERME A Giovanni Falcone non piacevano le parole. Ma i fatti. Era solito accompagnarsi sempre con i documenti, con le prove. Il generale Angiolo Pellegrini ne conserva un ricordo indelebile. Puro e intimo. A lui ha dedicato il libro che ha scritto, assieme a Francesco Condoluci, dal titolo “Noi, gli uomini di Falcone. La guerra che ci impedirono di vincere”, edito da Sperling e Kupfer con la prefazione del giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni.
Pellegrini è stato uno dei protagonisti degli anni Novanta. Investigatore vecchio stampo che, dopo aver combattuto Cosa nostra siciliana al fianco di Giovanni Falcone, arrivò a Reggio Calabria a dirigere la Direzione investigativa antimafia. Il generale, in poco tempo, diventò la bestia nera della ‘ndrangheta reggina. A lui va il merito di alcune importanti collaborazioni con la giustizia, come quella di Giovanni Riggio, e, prima ancora, di boss della caratura di Filippo Barreca e Giacomo Ubaldo Lauro ma anche di aver dato un contributo fondamentale al pool della Dda che ha aperto uno squarcio nella zona grigia della città dello Stretto.

“Noi, gli uomini di Falcone” è un capitolo di storia vera, un omaggio alla figura del giudice ucciso a Capaci nel ’92, ma anche a tutti quei valorosi uomini che combatterono quella stagione epica e che hanno pagato con la vita la loro sfida. Arricchito da materiale investigativo inedito e immagini esclusive di Giovanni Falcone e dei magistrati che indagarono su Cosa nostra, è un libro importante soprattutto per il suo messaggio di denuncia, chiara e forte, contro chi, quella guerra non ha voluto vincerla.
Palermo, gennaio 1981. Angiolo Pellegrini assume il comando della Sezione anticrimine dei carabinieri. Un ruolo scomodo: la mafia in Sicilia ha alle spalle una scia di cadaveri eccellenti. Unica speranza, un giudice palermitano che ha fatto della lotta alle cosche la sua missione: Giovanni Falcone. Falcone ha bisogno di uomini fidati. Pellegrini non si tira indietro. Con la squadra detta “la banda del capitano Billy The Kid”, va a cercare dove nessuno ha mai osato, guadagnandosi l’amicizia e la stima di Falcone. Mentre i viddani di Riina e Provenzano falcidiano con il kalashnikov le vecchie famiglie, carabinieri, polizia e magistrati si alleano in un’azione che culmina nel rapporto dei 162 e nell’estradizione di Tommaso Buscetta. Questo libro ricostruisce dall’interno il periodo più complesso della lotta a Cosa nostra e con coraggio esprime una denuncia: il vero nemico del pool è stato un potere politico oscuro che ha fermato le indagini subito, prima della loro svolta decisiva.

Una narrazione intensa e avvincente, raccontata per una volta dalla parte di chi si “sporcava le mani” a fare le indagini, ricca di squarci inediti e inquietanti, come i tentativi di delegittimazione nei confronti del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa da parte di istituzioni, politica e anche all’interno delle stesse forze armate, dopo la sua nomina a prefetto di Palermo.

 

copertrina libro

 

Perché ha deciso di scrivere questo libro?

«Ho voluto scrivere questo libro per ricordare le vittime della mafia, le tante persone che si sono sacrificate per lo Stato e le istituzioni, eppure sono state rapidamente dimenticate. L’ho scritto soprattutto pensando ai ragazzi, che conoscono così poco della storia recente d’Italia. Poi, via via che raccoglievo il materiale e ripercorrevo gli eventi, ho avuto la sensazione che dietro quello che è successo – e ancora di più, quello che non è potuto succedere – poteva esserci una mente sottile. Non mi riferisco ai corleonesi, ma a qualcuno di più sfuggente, che ha fatto naufragare le attività avviate da Giovanni Falcone. Questo qualcuno, prima, ha provveduto a eliminare o ad allontanare tutti i suoi collaboratori più fidati, sostituendoli con persone che non sempre erano all’altezza, rallentando così le indagini. E poi ci fu l’evidente tentativo di delegittimazione dello stesso Falcone: il fallito attentato all’Addaura, gli anonimi del corvo, la mancata elezione a capo dell’ufficio istruzione, per cui il pool fu gradualmente smantellato. Venne poi ricostituito, sì, ma ormai il danno era stato fatto. Non può essere tutto attribuito al caso».
Come ha pagato il suo personale impegno contro la mafia?
«In tanti modi: rinunciando alla tranquillità, allontanando la mia famiglia per non esporla, prendendo e imponendo costanti (quasi maniacali) precauzioni. Che però a qualcosa sono servite, visto che oggi sono qui a raccontarle e che nessuno dei miei uomini ha mai subito danni. Il pericolo maggiore probabilmente l’ho corso una sera, uscito dalla questura. Ero fermo a un semaforo e ho visto spuntare dal nulla una moto blu, con due uomini. Non vedevo i visi, coperti dal casco, ma ho avuto subito la sensazione che fossero lì per me. Ho accelerato e sono partito a tavoletta, lasciandoli dietro. Anni dopo ho avuto conferma che quello era un attentato bello e buono. Me l’ha detto Angelo Siino, uno degli uomini di Riina, che quella volta volevano uccidere, come uccideranno poi Ninni Cassarà. Non ci sono riusciti, e poco dopo sono stato allontanato da Palermo. Neppure questo può essere un caso. Ma esiste anche un prezzo, meno evidente e forse più alto, che si paga ogni giorno. Una persona in prima linea deve indurire il cuore, mettere a tacere i sentimenti, perché altrimenti, di fronte alla morte di colleghi, che spesso sono anche amici, e al rischio che si corre ogni ora, la tentazione di rinunciare è fortissima. Invece bisogna resistere».
Qual è l’insegnamento più importante che le ha trasmesso Falcone?
«L’onestà assoluta di uomo e giudice. Di qualunque indagine si trattasse, Falcone la conduceva con estremo rigore e serietà, senza travalicare, senza inventare, e rimetteva il giudizio alla Corte. Dovevano essere i documenti e le prove a parlare, non le sue convinzioni. Questa onestà morale e intellettuale l’ho sempre portata con me».

 

Mirella Molinaro

m.molinaro@corrierecal.it

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