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Non sono solo canzonette

Dice il vescovo che “Se non ami” di Nek (…se non ami non hai un vero motivo per vivere/ se non ami non ti ami e non ci sei…”) evoca l’inno alla carità di San Paolo. Tra le centinaia di “mail” di co…

Pubblicato il: 13/05/2015 – 8:52
Non sono solo canzonette

Dice il vescovo che “Se non ami” di Nek (…se non ami non hai un vero motivo per vivere/ se non ami non ti ami e non ci sei…”) evoca l’inno alla carità di San Paolo. Tra le centinaia di “mail” di congratulazioni (“la sua è una voce amica e pacificante”) che quotidianamente riempiono, da ogni parte d’Italia, la sua posta elettronica, alcune non apprezzano. Del tipo “lei gratifica, così facendo, le attese dell’effimero giovanile”; “cita canzonette di autori miscredenti se non atei”. È diventato virale nella rete, monsignor Antonio Staglianò, da quando, con voce allenata di chi il testo l’ha non soltanto mandato a memoria per la circostanza ma studiato in ogni parola, ha intonato le melodie di “Esseri umani”, la canzone di Marco Mengoni, e “Vuoto a perdere” di Noemi. Da quando, cioè, ha (lui dice così) cantillato (una forma antica del discorso parlato) canzoni popolari e “Avvenire”, il quotidiano dei vescovi, ha titolato “Staglianò parla di Dio anche con la musica pop”. Ma non durante una cenetta tra amici, bensì nel corso dell’omelia della messa ai cresimandi di Scicli in Sicilia. Ed è divenuto personaggio televisivo molto gettonato (“forse troppo”, confida al telefono) da quando Giancarlo Magalli ai Fatti vostri su Rai 2 e poi Paola Perego a Domenica in su Rai 1, l’hanno accolto con reiterati applausi, riconoscendogli di aver conquistato la simpatia del pubblico e soprattutto quella dei giovani.

 

NON SOLO CANZONI: I VIAGGI DA MISSIONARIO
Il vescovo di Noto, però, negli studi televisivi, non ha parlato solo dei testi di Nek, Vecchioni (“Chiamami solo amore”) Noemi, ma anche di Gesù, amore, bellezza, dei suoi viaggi di cooperazione missionaria in Congo (Butembo Beni), soffermandosi persino sul dolore per la morte del padre e del fratello. Ha innescato, questo suo modo d’essere Vescovo reso possibile dall’abbattimento, provocato dal Papa “che viene dall’altro mondo”, delle barriere che tenevano la Curia romana lontana dal mondo reale, un’innovativa forma di comunicazione. Che, senza pretenziosità e supponenze, ma con la naturalezza di chi crede, introduce, nel complesso dibattito odierno, alcuni dei messaggi più pregnanti del Vangelo. Nessuno, però, osi assimilarlo ai preti festaioli dei canti a squarciagola nelle chiese o peggio nei matrimoni. Altolà! Qui occorre un chiarimento. Il Vescovo in questione non è un curato di campagna. Come ce ne sono tanti. Di quelli giunti alla guida delle diocesi per forza d’inerzia o per i volteggi degli arcana impèrii che fanno arrabbiare Papa Francesco, ma un teologo raffinato. Un rosminiano di ferro, che conosce bene (ha 54 anni, è stato rettore dell’Istituto Teologico calabrese e consulente della Cei per il progetto culturale, prima che Benedetto XVI nel 2009 lo mandasse Vescovo nella prestigiosa diocesi di Noto) le cinque piaghe con cui la Santa Chiesa deve fare i conti dinanzi alle travolgenti trasformazioni culturali in atto.

 

STAGLIANO’ E IL MEZZOGIORNO “SPERANZA PER L’ITALIA”

Un vescovo che conosce le asprezze del Mezzogiorno italiano (è stato prete a Isola Capo Rizzuto per un decennio) di cui ha scritto (“Una speranza per l’Italia”, edizioni Paoline) che “anche se resta una terra amara per i pesi che ancora porta, può costituire una sorta di laboratorio per la speranza dell’Italia tutta” e della Calabria che “è una terra ricca ma infeconda”. Chi intona (Mengoni) “Oggi la gente ti giudica, per quale immagine hai. Vede soltanto le maschere, e non sa nemmeno chi sei. Devi mostrarti invincibile, collezionare trofei. Ma quando piangi in silenzio, scopri davvero chi sei. Credo negli esseri umani”, tra un cenno a Cristo e i giovani che lo stanno a sentire con entusiasmo, è anche uno che di recente ha dato alle stampe un libro sull’“Abate calabrese” che ha come titolo “Fede cattolica nella trinità e pensiero teologico della storia in Gioacchino da Fiore” pubblicato da Libreria editrice vaticana. Uno che giorni fa ha presentato il libro su Emanuele Severino di Giulio Goggi presso la Pontificia Università Lateranense, esordendo con frasi in tedesco (l’ha studiato in Germania dov’è andato ad approfondire alcuni filosofi).

 

I RISCHI DELL’AGONE MEDIATICO

Certo, non tutto è piano. Il rischio che corre un intellettuale acuto come Staglianò, lanciatosi nell’agone mediatico global senza reti di protezione e magari con grevi (per ora sottaciuti) disapprovazioni di chi, nella Curia, non gradisce mescolanze con la modernità, è alto. Questa modernità che appare così permeabile e facile a farsi modellare, nasconde trappole perniciose, come l’omologazione allo spettacolo che irradia ogni santo giorno e che, il più delle volte, atrofizza la discussione fino a svuotarla di sensi e sterilizza la profondità dei saperi, annullando l’umanità delle persone. È una sfida di cui il vescovo è consapevole. Ma che, sostiene, «vale la pena tentare». La Chiesa prima di Bergoglio, navigava nell’uggiosità di moduli di comunicazione e paradigmi che affondano le radici nei secoli dei secoli, separata dalle molte esigenze del terzio millennio. Oggi è pronta a confrontarsi con la donna, a rispettare le diversità, a porre con forza all’attenzione dei potenti del mondo (banche, grandi corporation, Stati) emergenze umanitarie come l’esplosione delle migrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente. È in questo contesto che emerge l’impegno del vescovo di Noto, per scrollare l’indifferentismo etico delle moltitudini ad incominciare dalle nostre città.

 

NON RASSEGNARSI ALLA NARCOSI IMPOSTI AL PENSIERO CRITICO

La singolare omelia di monsignor Stagliano, finita nel web e su Youtube, è una delle conseguenze della potente discontinuità con il passato introdotta coraggiosamente da Bergoglio. Dice Staglianò: «Non bisogna rassegnarsi alla narcosi imposta al pensiero critico delle persone». Forse per questo utilizza, nelle sue omelie, il messaggio del cantautore per cui “l’amore è la cura a tutti i mali del mondo”. Sul rapporto tra individualismo e omologazione dei giovani, Staglianò ha più volte espresso un’opinione precisa: «Le condizioni sociali in cui versano tanti giovani impediscono rapporti veri e bloccano il dialogo. È urgente stabilire con i giovani una comunicazione capace di trasmettere valori. Non è possibile lasciarli soli. In realtà, le giovani generazioni diventano nel temperamento sempre più fragili, mentre si perde il senso stesso dell’autorità e della tradizione. La vita si vive all’insegna dell’esperimento, dentro una fiumana di sentimenti e di decisioni che non valgono nemmeno l’istante in cui sono prodotte: tutto scorre, e velocemente. La provvisorietà estrema è la condizione di tutti gli affetti e i legami, da quelli familiari e politici, da quelli religiosi e sociali. Tutti devono interrogarsi sulla propria scarsa presa comunicativa, perché i giovani consumano tutto nell’individualismo». Ovviamente, Staglianò non tralascia di tirare in ballo «la mancanza di un ambiente favorevole, dato che le antiche strutture, famiglia e scuola, si sfaldano e perdono il loro ruolo di integrazione sociale, lasciando i giovani esposti al bombardamento della pubblicità commerciale che li rende incapaci di scelte vere nell’orizzonte di un consumismo in cui tutto è relativizzato».

 

 

«IN UN CONVEGNO SULLA METAFISICA MI TOCCAVA CONCLUDERE…»

Come s’intuisce, non c’è odore d’eresia né improvvisazione nel contegno del vescovo che canta Noemi e Mengoni. C’è, semmai, con un tono più divertito che serioso, posto che l’esperimento sembra gradito a tantissimi, una domanda da porre. Davvero per contrastare il “disorientamento dell’io”, di cui parlano i sociologi esaminando i rischi che la persona corre dinanzi a una marea di scelte che finiscono per opprimerla p
iuttosto che liberarla, si crede sufficiente ricorrere a “Vuoto a perdere”? O che, messi di fronte ad un mondo in cui i processi di comunicazione sono privi di scopo e l’organizzazione tecnologica forgia società che sterilizzano gli affetti e i giovani sono lasciati a uno “spontaneismo sregolato”, nel quale ognuno fa da sé, con una forte tendenza al conformismo, sia bastevole intercalare una dotta omelia con “Credo negli esseri umani. Credo negli esseri umani che hanno coraggio, coraggio di essere umani”? “Dobbiamo tentare”, risponde il vescovo. Che confida com’è nata questa sua folgorazione: “Mi trovavo a un convegno di metafisica e mi è stato chiesto di concludere. Avrei dovuto intrattenere una moltitudine di ragazzi sul Kritik der Idealismus (Critica dell’Idealismo) e sulla Metafisica dell’Essere parziale del filosofo ed accademico italiano Carmelo Ottaviano. I volti che avevo di fronte erano a dir poco annoiati. Così ho cantillato “Vuoto a perdere” di Noemi, per spiegare l’horror vacui, ed “Essenziale” di Mengoni, per spiegare il concetto su cui Aristotele si sofferma nel IV libro (“ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un’altra cosa”)…È andata benissimo”. E non intende smettere. C’è lavoro per semiologi, scienziati ed esperti di comunicazione.  

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