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E la medaglia d'oro al partigiano Facio?

Una, Tina Costa, è stata staffetta partigiana: attraversava con agilità la linea Gotica per consegnare borse ai combattenti; l’altra, Laura Seghettini “un soldato” nel battaglione Picelli. Sono, tr…

Pubblicato il: 21/05/2015 – 13:42
E la medaglia d'oro al partigiano Facio?

Una, Tina Costa, è stata staffetta partigiana: attraversava con agilità la linea Gotica per consegnare borse ai combattenti; l’altra, Laura Seghettini “un soldato” nel battaglione Picelli. Sono, tra le tante, due storie di donne combattenti che arricchiscono il numero di Micromega dedicato ai 70 anni della Resistenza. Un dossier introdotto dal presidente Mattarella che meriterebbe di finire sui banchi di ogni scuola. Cosa c’è, viste da quaggiù, di particolarmente interessante nelle vicende rocambolesche delle due donne?

 

UCCISO DAL FUOCO AMICO
In una, un calabrese. Nei lunghi mesi di montagna di Laura Seghettini. Un calabrese dallo sguardo limpido, di quelli tosti “comu na petra”, che aborrono l’intrico. E li fermi solo se gli spari. Infatti: gli hanno teso una trappola e l’hanno ammazzato. Altri partigiani. Dopo un processo farsa. Al padre dei fratelli Cervi, “Facio” diceva: «Quando sarà finita la guerra, vi inviterò al mio paese a mangiare fichi d’India». Non gliel’hanno lasciato fare. È lei, Laura Seghettini, “la maestra col fucile” nata a Pontremoli (Lunigiana) nel ’22, figlia e nipote di antifascisti della prim’ora, che, riandando indietro con la memoria, si sofferma su un uomo «all’inizio scostante con me». Quando la 22enne si presentò, per sfuggire al carcere fascista, al battaglione “Picelli” (maggio ’44) dovette aspettare, prima d’essere intruppata, che “Facio” rientrasse al campo da una missione. Lui la guardò e, temendo che in mezzo a tutti gli uomini si sarebbe trovata male, disse: «Bah, in una situazione del genere…». E lei: «Io mi rendo conto, però non vorrei finire in galera o un lager tedesco perché ti disturba la mia presenza. Sta’ tranquillo, fossi tu o qualcun altro che allunga le mani verso di me… ve le taglio». Lui rispose: «Sei sgarbata», ma assentì.

LEGGENDA VIVENTE
“Facio” è il comandante Dante Castellucci nato a Sant’Agata d’Esaro, il 6 agosto 1920, in Calabria. Emigrato in Francia con la famiglia, dopo aver combattuto sulle Alpi e lungo il Don, diserta. Sceglie di combattere per la libertà. Inizialmente, è il braccio destro di Aldo Cervi: ricordate i sette fratelli Cervi di Campegine? Poi assume il comando del battaglione “Guido Picelli” della brigata Garibaldi parmense, «in cui si distinse per il carisma e le straordinarie capacità operative». Assunse il nome di un brigante calabrese, che avversò i Borboni e i Piemontesi.

Sull’Appennino Tosco Emiliano mise a segno straordinarie azioni militari e divenne una leggenda vivente per le comunità della Lunigiana e della Valle del Taro. Indimenticabile, la sua astuzia e la sua generosità nella battaglia del Lago Santo: erano solo in nove. Dopo due giorni di combattimenti, fecero scappare un reparto di un centinaio di nazifascisti. Quelle gesta gloriose sono state ricordate qualche giorno fa dal Comitato unitario della Resistenza, dall’Anpi di Parma e dal Museo audiovisivo della Resistenza: «Facio vive ancora!».

 

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LA FALSA ACCUSA

Laura Seghettini divenne la sua compagna. Racconta: «Facio era un uomo saggio, buono, prudente, da buon calabrese anche un po’ diffidente, e poi era colto suonava bene il violino, faceva teatro ed era un buon parlatore: l’innamoramento, non so neanche se… è venuto cosi in un breve momento ma che diventa un’eternità quando si ha la morte vicina, giorno e notte».

Laura Seghettini ne traccia il profilo di partigiano con parole semplici. Come fosse ieri: «Era stato a Campegine con i fratelli Cervi e arrestato insieme a loro, riuscì a scappare dal carcere, ma non riuscì nel suo intento di liberarli prima della fucilazione. Era molto amato dai suoi uomini e anche dalla popolazione… era stato uno dei protagonisti della battaglia del Lago Santo. A luglio venne processato, a sorpresa, da altri partigiani per un contenzioso su un lancio paracadutato dagli alleati e destinato a un altro gruppo di partigiani (poi fu dimostrato che “Facio” si trovava da tutt’altra parte).

L’accusa di sabotaggio e tradimento era palesemente falsa e a orchestrare tutto il processo c’era Antonio Cabrelli, un antifascista che aveva sicuramente delle brame di potere. Io arrivai verso la fine del processo e trovai “Facio” che non reagiva alle accuse, era come ammutolito, allora gli dissi: “Ma perché non ti difendi?”. E lui: “Io non mi difendo dai compagni, se ritengono che abbia sbagliato, pagherò”. E lo stesso rispose agli uomini che dovevano fucilarlo all’alba del 22 luglio (località: Adelano di Zenri), quando gli proposero di scappare: “Sono fuggito dai fascisti ma non scappo dai compagni”. La sua fucilazione ci ha sconvolto tutti. Io non so se sarebbe durata con “Facio”, ma quando stava andando alla fucilazione si è girato verso di me e mi ha detto: “Vedi che non sporchino troppo il mio nome”. Per questo io ho continuato in tutta la mia vita a chiedere di fare chiarezza su quella morte, lo dovevo a quel povero ragazzo che ha fatto una fine ingiusta. Dopo qualche anno sono stata in Calabria a casa di “Facio” per salutare la madre…».

 

SEGHETTINI: «NON DOVEVANO UCCIDERLO»
In un’altra circostanza, Laura Seghettini ha ricordato: «All’alba lo hanno preso e lo hanno portato fuori. Ho saputo che ha gridato “Viva l’Italia”. No, non si doveva uccidere un uomo così. Aveva solo venticinque anni». Perché non restino ombre sul viso limpido del comandante “Facio”: a) chi lo ha accusato era un personaggio «conosciuto per aver avuto legami col regime fascista, ma non era riuscito ad arrivare al ruolo di commissario politico nel distaccamento del battaglione Guido Picelli; b) Wikipedia riporta che «Cabrelli (nome di battaglia Salvatore), sospettato di complotto da diversi comunisti (in primis da Laura Seghettini), per quanto accaduto a “Facio”, lasciò il Partito comunista ed entrò nel Psi, assumendo nell’immediato una carica pubblica nell’amministrazione comunale di Pontremoli”; c) Antonio Cabrelli «fa una fine singolare e ambigua: muore in un incidente stradale con una donna che Laura Seghettini conferma essere ex spia dell’Ovra, per cui vi son sospetti sulla morte del Cabrelli».

Non è tutto. La conclusione di questo articolo è ispirata da un libro bellissimo, che ha il merito di fare chiarezza sulla «vera storia del partigiano Facio». Il libro s’intitola “Il piombo e l’argento” (Donzelli editore). Lo ha scritto nel 2007 uno storico, Carlo Spartaco Capogreco, da sempre impegnato sul fronte più scabroso delle vicende della seconda guerra mondiale, «dimostrando che è possibile indagare nelle pieghe e nelle piaghe più controverse della Resistenza, accettandone le zone d’ombra, senza intaccare l’alto significato della lotta per la Liberazione».

 

 

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L’IPOCRISIA DELLA MEDAGLIA D’ARGENTO
Dunque: 19 maggio 1963: 19 anni dopo. Nel piazzale della Caserma Luigi Settino di Cosenza prendono avvio le Giornate del Decorato al Valor militare e dell’Orfano di guerra”. Il generale Di Cerbo, comandante della XV zona militare e del presidio di Cosenza, conferisce la medaglia d’argento alla memoria di Dante Castellucci “della classe 1920 di Sant’Agata d’Esaro, caduto eroicamente a Pontremoli il 22 luglio 1944”. Concetta Arcuri Castellucci (la madre di Facio) si ferma al cospetto del generale che, stringendosela al petto, procede alla consegna. Scrive Carlo Spartaco Capogreco: “La madre di Facio riprende la via del ritorno portandosi a casa la luccicante medaglia ‘alla memoria’, che in realtà – a giudicare da quanto scritto nel testo
della motivazione – sembra più una medaglia all’oblio concepita per cancellare il dato storico che Dante Castellucci, in realtà, non è caduto combattendo contro il nemico”. Non finisce qui. Nel 2007 un gruppo di storici, tra cui Claudio Pavone, Alessandro Portelli, Paolo Pezzino, Alberto Cavaglion e Giovanni De Luna, invia una petizione al Presidente della Repubblica, “per ottenere l’assegnazione della Medaglia d’Oro alla memoria, perché dai documenti emerge la verità sulla morte di Dante Castellucci e l’eroismo di un partigiano noto e stimato da tutti. L’attribuzione della Medaglia d’Oro – scrivono – si rende più che mai necessaria dal momento che la figura di Castellucci, che combatté accanto ai fratelli Cervi e si distinse per importanti azioni partigiane nel Parmense e in Alta Lunigiana, rimane tuttora appannata nonostante la Medaglia d’Argento conferitagli nel 1963, la quale conteneva una motivazione non rispondente a verità”. Sono trascorsi otto anni. Invano. Settantuno anni dalla vigliacca fucilazione di un eroe della Resistenza di cui si celebrano i sette decenni in ogni città e contrada del Paese. Ma la Medaglia d’Oro alla memoria di “Facio” perché rimane nel cassetto?

 

*Giornalista

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