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Omicidio De Rosa, chiesti 30 anni per Rocco Papalia

REGGIO CALABRIA È di 30 anni di carcere per omicidio volontario, commesso con l’aggravante dei futili motivi, la pena chiesta dalla Dda di Milano per Rocco Papalia, già condannato in via definitiva…

Pubblicato il: 27/05/2015 – 16:45
Omicidio De Rosa, chiesti 30 anni per Rocco Papalia

REGGIO CALABRIA È di 30 anni di carcere per omicidio volontario, commesso con l’aggravante dei futili motivi, la pena chiesta dalla Dda di Milano per Rocco Papalia, già condannato in via definitiva per associazione mafiosa e oggi alla sbarra per un omicidio del lontano 1976. Un cold case, riaperto da inquirenti e investigatori, grazie alle chiacchierate di due dei più fidati sodali di Papalia – Agostino Catanzariti e Michele Grillo – sorpresi a parlare della questione con precisione e dettaglio, nel corso dell’indagine “Platino” che li ha in seguito fatti finire in manette. La vittima, Giuseppe De Rosa, non era un grande boss, non controllava il mondo della droga o di altri traffici illeciti, ma era uno degli elementi più rampanti del clan dei nomadi di Milano sud, che contendeva ai calabresi il controllo del territorio quelle periferie di Corsico e Buccinasco in cui i Papalia avevano messo da qualche tempo radici. Per questo andava eliminato. A fornire l’occasione, una storia di risse e donne offese nei locali frequentati dai nomi che si facevano strada nella mala. Fin da subito le indagini puntano sui “calabresi di Buccinasco”, ma la ritrattazione di una serie di testimoni chiave trasforma l’inchiesta in una Caporetto investigativa. Tocca aspettare quasi quarant’anni perché su quell’omicidio, rimasto senza colpevoli, venga fatta luce proprio grazie a uno dei fedelissimi del boss, quell’Agostino Catanzariti cui i fratelli Papalia avevano delegato la gestione degli affari durante la detenzione. Ascoltato dalle cimici del Ros, Catanzariti torna con i ricordi alla notte dell’omicidio e rivela che De Rosa aveva addirittura osato puntare la pistola alla tempia di “‘Nginu” – così era chiamato il boss Rocco Papalia – ma «(Rocco) poi ha preso (inc) l’ha buttato a terra, è partito dalla testa, gli ha tolto, l’ha fatto … quello con la pistola in mano faceva le cose, lui l’ha tagliato, l’ha spaccato tutto… ora se avessero seguito quello che gli avevo detto io, avevano fatto prima belli tranquilli (..) prendi che quello sono, gli era partito un colpo e gli aveva scippatu il cervello… quello la pistola all’orecchio gliel’aveva puntata (..) quello gli ha messo la pistola a lui, quest’altro, come ha visto così, l’ha sbilanciato, gli ha dato un colpo al cazzo, l’ha buttato a terra, ed è partito (..) gliel’ha scaricata tutta in corpo, partendo dalla testa ad andare in basso».
Una dinamica che trova conferma nei riscontri autoptici e nelle perizie medico legali dell’epoca, come nelle prime testimonianze raccolte a caldo dagli investigatori, prima che a tutti venisse chiusa la bocca, e che ha permesso agli inquirenti milanesi di incriminare Papalia. Un duro colpo per il boss, che nel giro di pochi anni avrebbe finito di scontare il cumulo di pene in precedenza rimediate, e sarebbe tornato uomo libero. L’esito del procedimento – che arriverà solo dopo la sentenza della Cassazione sull’ordinanza emessa a carico di Papalia – non è scontato, anche perché qualora la Corte d’assise non riconoscesse l’aggravante dei futili motivi, il delitto cadrebbe automaticamente in prescrizione.

 

a. c.

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