Nella migliore delle ipotesi l’antimafia da passerella, alla quale dedicano ormai gran parte del loro tempo sia il presidente del Senato Piero Grasso che il suo successore alla guida della Procura nazionale antimafia Franco Roberti, finisce col portare male a chi pratica l’antimafia quotidiana dei fatti. Non sapremmo come leggere altrimenti le defaillance che il contrasto alla criminalità organizzata nel suo aspetto più pericoloso, quello del connubio con la politica, hanno contato in questi giorni sull’asse Palermo-Rosarno-Roma. Lo stesso asse che il floreale duo Grasso-Roberti ha percorso, tra un’inaugurazione e un taglio di nastro.
Torni a Rosarno, il presidente Grasso, perché è bene scopra direttamente che appena scaduto il tempo concesso alla passerella antimafiosa organizzata dalla “Gerbera Gialla”, la ‘ndrangheta si è ripreso quel che è suo e ha sciolto il comune di Rosarno, mandando a casa Elisabetta Tripodi, la sua vita blindata e il suo impegno a portare regole certe anche a Rosarno. E torni, il presidente Grasso, a leggere le sentenze che stanno uscendo in questi giorni e che spingono il procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, a commentare con dura amarezza: «Non è stato riconosciuto il voto di scambio politico-mafioso e l’agevolazione ai mafiosi, perché il giudice ha considerato che la legge attuale è più favorevole all’imputato. La concezione che sta alla base delle norme sul nuovo voto di scambio – ha continuato il pm – distrugge tutto ciò che è stato fatto negli ultimi venti-trenta anni contro la mafia e il suo potere elettorale. Non è ammissibile che ogni volta ci si debba chiedere di dimostrare il metodo mafioso».
Eppure quella legge che oggi, a Bologna come a Palermo e a Roma come a Torino, impedisce di colpire il voto di scambio politico-mafioso ha avuto la benedizione sia del presidente Grasso che del procuratore nazionale Roberti. Parlarono di un successo e di un grande passo avanti mentre i loro colleghi, quelli in trincea, facevano notare che la realtà era assai diversa.
LO SFOGO DI TERESI
Sentiamo ancora lo sfogo di Vittorio Teresi: «Sbaglia chi crede che ci sia una mafia militare e una mafia politica e che queste siano due parti scindibili, indipendenti e autonome dell’organizzazione mafiosa. Non sono la stessa cosa dal punto di vista ideale e operativo, sono la stessa cosa dal punto di vista personale. I criminali mafiosi a cui ci si rivolge per ottenere voti sono coloro che commettono i reati più gravi all’interno dell’associazione mafiosa per raggiungere i fini dell’associazione stessa».
Possibile che nessuno tra i tanti cronisti e i tanti operosi militanti della lotta alla mafia con marcette musicali e dibattiti “all’acqua di rose”, ha trovato il tempo di chiedere a Grasso e a Roberti – in quel di Rosarno e in quel di Roma – conto per una legge che porta indietro di venti-trenta anni lo stato della lotta alla mafia?
Cosa è accaduto? Vediamo di spiegarlo bene, in attesa che se ne occupi la promessa Università dell’antimafia di Limbadi. Con l’art. 11 ter del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (successivo di pochi giorni alla strage di Capaci) convertito in Legge 7 agosto 1992 n. 306, il legislatore introdusse l’art. 416 ter del codice penale che per la prima volta puniva il voto di scambio, cioè la promessa di voti da parte di appartenenti ad organizzazioni mafiose «in cambio della erogazione di denaro».
IL TRADIMENTO DI GIOVANNI FALCONE
Sembrava una grande conquista, realizzata con il sangue di Giovanni Falcone, ma era una beffa. Quella norma fu applicata molto raramente perché prevedeva un’ipotesi rarissima: quella di mafiosi che promettono o danno voti al politico in cambio di denaro, come se di quello avessero bisogno, loro che maneggiano gli enormi profitti della droga e delle altre attività criminali tipicamente mafiose. Vogliono invece ottenere vantaggi sul piano legislativo, amministrativo, istituzionale e dunque si trattò di una legge inutile. Per decenni vi furono appelli ai governi di ogni colore, al Parlamento, ai singoli partiti, alla Commissione antimafia perché proponesse una riforma, che, secondo le proposte più serie e sensate, doveva limitarsi all’aggiunta di cinque paroline. Dopo «in cambio della erogazione di denaro» bastava aggiungere «e di ogni altra utilità». Passarono oltre due decenni inutilmente. Finalmente l’attivismo del governo Renzi pose fine allo scandalo. La legge sul voto di scambio sarebbe stata modificata in modo da renderla applicabile a tutte le ipotesi di scambio, come richiesto da magistrati, studiosi, e dall’antimafia della strada, quella senza partita iva e senza incarichi ministeriali, per capirci. Dopo lungo travaglio fu varata la legge 17 aprile 2014, n. 62 dal titolo eloquente “Modifica dell’articolo 416-ter del codice penale, in materia di scambio elettorale politico-mafioso”. La riforma venne accolta con plauso generale da magistrati, organizzazioni antimafia, politici, ecc. Ed in effetti a leggerla bene quelle cinque paroline erano state finalmente aggiunte. Eccone il testo: L’articolo 416-ter del codice penale è sostituito dal seguente: «Art. 416-ter. – (Scambio elettorale politico-mafioso). – Chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma».
Un momento: prima di quelle paroline, a ben guardare, però ne erano state aggiunte altre, non si sa bene da chi, che passarono inosservate, ma che presto rivelarono la loro effettiva nefasta portata. Da una parte si aggiungeva, ma dall’altra si introducevano «le modalità» che avrebbero reso di fatto inapplicabile la legge. Lo scambio doveva avvenire «mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis» e cioè «avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associative e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva».
Che sarà mai? Lo scoprì dopo appena qualche mese la Cassazione, con la sentenza emessa il 3 giugno 2014: «In tema di delitto di scambio elettorale politico-mafioso, la legge 17 aprile 2014, n. 62, modificando l’art. 416-ter Cod. Pen. ha introdotto un nuovo elemento costitutivo nella fattispecie incriminatrice, relativo al contenuto dell’accordo, che deve contemplare l’impegno del gruppo malavitoso ad attivarsi nei confronti del corpo elettorale anche dispiegando concretamente, se necessario, il proprio potere di intimidazione, con la conseguenza che sono penalmente irrilevanti le condotte pregresse consistenti in pattuizioni politico-mafiose, che non abbiano espressamente previsto le descritte modalità di procacciamento dei voti».
UNA MANINA ALTERA LA LEGGE
Per la verità il testo approvato in prima lettura dalla Camera era diverso: Nella “Relazione alla proposta di legge C.204”, presentata alla Camera dei Deputati il 15 marzo 2013 e poi approvata con modificazioni, si evidenziava, infatti, che «l’ulteriore (diabolica, ndr) necessità di provare l’utilizzo del metodo mafioso, che non attiene alla struttura del reato, riconducibile ai delitti di pericolo ovvero a consumazione anticipata, rischia di vanificare la portata applicativa della disposizione». La Camera, in sostanza, aveva fiutato il pericolo per cui insisteva nella originaria formula: «Chiunque, fuori delle previsioni di cui all’art. 416-bis, comma 3, anche senza avvalersi delle condizioni ivi previste, ottenga, da parte di soggetti appartenenti a taluna delle associazioni di tipo mafioso punite a norma dell’art. 416-bis ovvero da parte di singoli affiliati per conto delle medesime, la promessa di voti, ancorché in seguito non effettivamente ricevuti, in cambio dell’erogazione di denaro o altra utilità è punito con la pena prevista dal primo comma del citato art. 416-bis»
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IL MISFATTO AVVIENE AL SENATO
È al Senato che si consuma il misfatto. È al Senato che una “manina” ancora non identificata innesca la mina che oggi fa saltare indagini delicate contro Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta lasciando impunti i politici che sottoscrivono accordi con i mafiosi in cambio del loro appoggio elettorale. Insomma proprio sotto gli occhi del presidente Piero Graso, qualche manina introdusse lo strumento che avrebbe dovuto rendere inapplicabile la legge, essendo praticamente impossibile dare la prova della consapevolezza da parte del politico che la promessa o dazione dei voti sarebbe avvenuta tramite intimidazione assoggettamento e omertà, di cui sopra.
Nessuno tra i laudatores della nuova legge se ne era accorto. La sentenza emessa adesso fornisce la prova della possibile inutilità della nuova tanto decantata legge, inapplicabile persino nei casi di elargizione di denaro.
Non è l’unico caso di mine vaganti inserite nel corpo di leggi antimafia. Quella sull’autoriciclaggio ne costituisce altro clamoroso esempio. Ma su queste cose l’antimafia delle marcette, quella danzante e saltellante esperta in novelle per studenti svogliati, non interloquisce.
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