REGGIO CALABRIA I loro capi storici stanno scontando lunghe condanne, sequestri e confische hanno ridotto di molto il patrimonio disponibile del clan, ma gli Alvaro di Sinopoli, arrivati anche nel cuore di Reggio città grazie al ruolo di grande saggio assunto dal patriarca don Mico nella costruzione della pax mafiosa dei primi anni Novanta, non solo esistono ancora, ma si sono ritagliati un ruolo anche nel mondo del narcotraffico. Signori delle maestranze nel porto di Gioia Tauro, dove grazie ai propri uomini erano in grado di garantire “recuperi” sicuri della cocaina che viaggiava nei container, l’operazione Santa Fe del procuratore aggiunto Nicola Gratteri li fotografa anche nel ruolo di committenti di carichi di droga. A gestire tutto era Giuseppe Alvaro, insieme al fratello Vincenzo vero e proprio regista tanto delle operazioni di recupero, come quelle di finanziamento e importazione dei carichi destinati a diversi porti commerciali italiani, tra i quali quello di Gioia Tauro, Genova, Livorno e Vado Ligure.
A Gioia Tauro era Giuseppe Alvaro in persona a coordinare via chat Placido Giacobbe e Francesco Gioffrè, i portuali chiamati ad individuare il container indicato, recuperare il carico e – indisturbati – portarlo fuori dal porto. Tutte le comunicazioni avvenivano attraverso le chat dei blackberry, blindate non solo da un codice di difficile individuazione, ma anche da un linguaggio cifrato e allusivo, con cui pensavano di mettersi al riparo da possibili intercettazioni. Speranze vane. Sotto gli occhi dei militari della Finanza per mesi sono passati i messaggi che i portuali regolarmente mandavano ad Alvaro per aggiornarlo sulle operazioni di scarico in corso, come sugli interventi di recupero sui container, che non si fermavano neanche quando il carico era presidiato dalle forze dell’ordine. “Ci sn pufi da per ttt anche in aqua in. Quanto cn il capo a bordo abbiamo trovato una soluzione domani stai tranquillo … Si va via domani seran ma entro domani sera si fara tranquillo”, scriveva in quell’occasione Giacobbe, rassicurando Gioffrè, a sua volta chiamato a riferire ad Alvaro.
In realtà, Alvaro avrà ben poco da stare tranquillo e del fallimento dell’operazione sarà obbligato ad informare anche i committenti della jonica. “X l’altro speranze????? … L altro e morto condoglianze”, scrive infatti a Domenico Sainato, trait d’union con Antonio Femia, uomo del clan Aquino-Coluccio che aveva finanziato l’importazione. Per quel giorno al porto era previsto l’arrivo di due diverse spedizioni, ma una verrà intercettata e sequestrata, l’altra verrà recuperata solo a Napoli. Ed è proprio qui che si verificherà una circostanza che gli inquirenti non esitano a definire inquietante. Nonostante sulla base delle intercettazioni fossero stati predisposti i controlli, quando i militari della Finanza ispezionano i container segnalati, uno era totalmente sprovvisto di sigillo, gli altri ne avevano uno difforme da quello riportato sulla lista di sbarco e sul relativo cargo. «In ragione di ciò – appuntano quasi con rabbia gli investigatori nell’informativa – anche alla luce della inusuale assenza di reazioni negative registrate nelle chat, deve ritenersi che la sostanza stupefacente sia stata prelevata da uno dei tre container, prima che questi venissero sottoposti a perquisizione. Tale circostanza dimostra la capacità operativa dell’organizzazione, forte della collaborazione e dell’appoggio di soggetti operanti nell’ambito anche di diversi porti (e non solo in quello di Gioia Tauro)».
Anche a Vado Ligure funzionava lo stesso sistema, così come a Genova e nei porti dell’Alto Tirreno dove a coordinare operativamente gli “interventi” dei portuali erano Giuseppe Talotta e Angelo Romeo, in stretta collaborazione e continua connessione con i fratelli Alvaro. Tutte chat che sebbene rese quanto meno sibilline da un linguaggio criptico oggi sono per gli uomini dei clan, pesantissime prove a carico. E lo sono soprattutto per uomini del calibro di Giuseppe Alvaro, cui tutti fanno riferimento come regista di operazioni e traffici. Business che ha continuato impunemente a gestire con il supporto dei fratelli anche quando si è dovuto dare alla latitanza, perché raggiunto dall’esecuzione di una condanna per narcotraffico rimediata in appello. Non meno importante è il ruolo del fratello di Giuseppe Alvaro, Nicola, che quando il clan si emancipa dal ruolo di mero responsabile del recupero di stupefacenti, per gestire una propria importazione insieme a un gruppo criminale montenegrino con base nell’hinterland romano, va fino a Buenos Aires per trattare e curare il carico. Tutte circostanze ricostruite in dettaglio dagli inquirenti incrociando il contenuto delle chat captate con servizi di osservazione, perquisizioni e sequestri, che oggi pesano come prove a carico della già complicata posizione dei fratelli Alvaro.
«Dal contenuto delle conversazioni captate – scrive il gip – si ha contezza della perfetta sinergia che i diversi soggetti (ognuno nello svolgimento del proprio ruolo) hanno posto in essere, nonché della fitta trama di rapporti tra acquirenti e fornitori dello stupefacente, per non dire poi della sistematicità e della professionalità dimostrata nel trattare ingenti partite di droga. Tutti elementi che denotano una significativa e non usuale capacità a delinquere, nonché una elevata pericolosità sociale da parte degli indagati, e che, soprattutto se correlati alla circostanza che i rapporti tra gli stessi non risultano – al momento della redazione dell’informativa in atti – cessati o interrotti, determinano la necessità, di un’immediata disarticolazione della complessiva organizzazione e delle attività portate. Avanti, pure con pervicacia, a cagione della ragionevole ed elevata probabilità che gli indagati medesimi stiano tutt’ora continuando a tenere condotte criminose del tipo di quelle per cui si procede, in quanto in ciò non frenati o inibiti nemmeno dagli stringenti controlli e dai numerosi sequestri già operati». Una richiesta che la maxioperazione Santa Fe oggi ha pienamente esaudito.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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