REGGIO CALABRIA Sono state in larga parte nuovamente confermate le condanne emesse dalla Corte d’appello contro il clan Alvaro nell’ambito del procedimento “Virus”, tornato di fronte ai giudici di piazza Castello dopo l’annullamento delle condanne per associazione mafiosa e favoreggiamento disposto dalla VI sezione della Cassazione. Come chiesto dal procuratore generale Fulvio Rizzo incassa una condanna a quattro anni di carcere da infliggere in continuazione con la sentenza disposta dalla Corte d’appello reggina il 18 novembre del 2002, l’ex superlatitante Carmine Alvaro, mentre è di quattro anni e quattro mesi di carcere la pena disposta per il figlio Stefano Alvaro, sempre in continuazione con una condanna in precedenza rimediata. È invece di sette anni e quattro mesi più ottomila euro di multa, la pena inflitta a Giuseppe Alvaro, mentre sei anni e otto mesi più seimila euro di multa vanno a Antonio Dalmato e Rocco Salerno. A quattro anni e otto mesi è stato invece condannato Antonio Felice Romeo, mentre leggermente inferiore alle richieste della pubblica accusa a causa della caduta dell’aggravante mafiosa loro contestata, è la condanna disposta per Francesco Borruto e Rocco Caruso, puniti con un anno e 4 mesi più 533,33 euro di multa. Arriva invece la sospensione condizionale della pena per Domenico Alvaro cl.37, mentre sono confermate le condanne di a Francesco Dalmato (3 anni e 6 mesi), Maurizio Grillone (3 anni), Nicola Alvaro (6 anni e 8 mesi) e Paolo Alvaro (7 anni e 4 mesi).
L’INCHIESTA
Scaturita dalle indagini per la cattura del boss Carmine Alvaro, “‘U CUPERTUNI”, l’inchiesta, coordinata dal procuratore Roberto Di Palma, ha svelato come il clan – noto per lo storico ruolo di mediatore nelle trattative che hanno chiuso la seconda guerra di ‘ndrangheta a Reggio e regalato alla città un nuovo direttorio criminale – fosse rimasto operativo, nonostante diverse operazioni ne avessero nel tempo assottigliato i ranghi.
Al contrario, da Sinopoli gli Alvaro sarebbero negli anni riusciti ad estendere la propria influenza criminale fino a Reggio Calabria – come in seguito confermato dall’inchiesta “Meta” – anche grazie allo sviluppo dei rapporti con il clan Tegano e quello che ne era la mente economica e finanziaria prima di scomparire per lupara bianca, Paolo Schimizzi.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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