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“Cosa mia”, definitive le condanne contro il clan Gallico

REGGIO CALABRIA Fatta eccezione per Antonio Dinaro, che si vede confermare in via definitiva la condanna per estorsione, ma strappa un nuovo processo d’appello per l’accusa di associazione mafiosa,…

Pubblicato il: 09/07/2015 – 13:23
“Cosa mia”, definitive le condanne contro il clan Gallico

REGGIO CALABRIA Fatta eccezione per Antonio Dinaro, che si vede confermare in via definitiva la condanna per estorsione, ma strappa un nuovo processo d’appello per l’accusa di associazione mafiosa, vengono definitivamente sepolti sotto decenni di condanne gli uomini della cosca Gallico imputati nel processo “Cosa mia”, scaturito dall’inchiesta che ha svelato e provato l’ingerenza delle cosche nei cantieri dell’A3, ma anche l’atteggiamento – nella migliore delle ipotesi – accondiscendente delle grandi imprese che la subiscono. Anche la Suprema Corte ha dunque confermato l’impianto accusatorio costruito dai pm Roberto di Palma e Giovanni Musarò, confermando le condanne inflitte a Antonino Ficarra (9 anni in continuazione), Italia Antonella Gallico (8 anni), Vincenzo Barone, Massimo Aricò, Vincenzo Gioffrè, Pasquale Casadonte, Roberto Ficarra, Rocco Carbone e Rosario Sgrò, (6 anni), Giulia Iannino (6 anni e 2 mesi di reclusione), Domenico Gallico (3 anni e 6 mesi), Gaetano Giuseppe Santaiti (3 anni) e Alberto Cedro (9 mesi). Diventano definitive, per la dichiarata inammissibilità del ricorso presentato dalla procura generele, anche le assoluzioni di Lucia Gallico, condannata in primo grado a 8 anni e 6 mesi e assolta in appello, Maria Antonietta Gallico, punita con 8 anni e 4 mesi in primo grado e assolta in appello e Carmelo Sgrò, che aveva rimediato 8 anni e 6 mesi in primo grado, ma è stato assolto in appello. Nonostante questo, la sentenza rimane un successo rotondo per la Dda reggina che ha visto confermato il lungo lavoro di indagine, avviato nel 2005 dal pm Roberto di Palma, affiancato dal sostituto procuratore Giovanni Musarò a partire dal 2008. Un lavoro certosino che ha svelato che i cantieri per i lavori di ammodernamento della A3 continuavano ad essere stretti nella morsa delle organizzazioni criminali, che imponevano una tangente del 3% sugli appalti quale corrispettivo per la “sicurezza”. Una tassa che i clan imponevano con un rosario di furti e danneggiamenti e le grandi imprese accettavano – e probabilmente accettano – di pagare senza troppi problemi.

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