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La reggina che salva i migranti nel Mediterraneo

REGGIO CALABRIA Non mostra le insegne della Marina militare italiana o di altri Paesi, né è un mercantile dirottato dalle sue routinarie rotte, ma entra in porto con l’orgoglio di chi rapprese…

Pubblicato il: 10/07/2015 – 15:10
La reggina che salva i migranti nel Mediterraneo

REGGIO CALABRIA Non mostra le insegne della Marina militare italiana o di altri Paesi, né è un mercantile dirottato dalle sue routinarie rotte, ma entra in porto con l’orgoglio di chi rappresenta un progetto di solidarietà divenuto programma concreto, la Phoenix, la nave prima nave di privati inquadrata nel dispositivo di soccorso migranti nel Mediterraneo. A bordo ci sono 247 migranti, salvati due notti fa dalla piccola imbarcazione di legno di 12 metri su cui viaggiavano a 40-50 chilometri dalle coste della Libia e accompagnati oggi a Reggio Calabria dai volontari del Moas, (Migrant offshore aid station, postazione di aiuto in mare ai migranti),l’ong nata per fornire aiuto e assistenza ai migranti che sfidano il mare, in cerca di una vita migliore.

 

IL SOGNO DEI CONIUGI CATRAMBONE «Eravamo in vacanza in barca con mio marito e ci siamo resi conto che questo fenomeno migratorio stava e sta mietendo troppe vittime innocenti, persone che muoiono alle porte dell’Europa. E questo è inaccettabile. Noi ci battiamo per il diritto alla vita, per questo abbiamo deciso di dare vita al Moas». Un progetto voluto dai coniugi Christofer Catrambone e Regina Egle Liotta – statunitense lui, reggina lei, ma entrambi residenti a Malta – che da quest’anno conta anche con la collaborazione di Medici senza frontiere e in poco più di quindici mesi di vita può vantare risultati importanti. «Siamo stati la prima organizzazione non governativa in mare. L’anno scorso, dalla fine di agosto alla fine di ottobre, siamo riusciti a salvare oltre tremila persone. Quest’anno, dal 2 maggio a oggi, abbiamo recuperato oltre cinquemila persone, quindi in totale il Moas ha salvato la vita a più di ottomila persone», dice Regina Egle Liotta, appena sbarcata sul molo di Reggio, mentre attorno fervono le attività di soccorso.

FORTEZZA EUROPA Salutati dai volontari, i migranti scendono alla spicciolata dalla Phoenix. Hanno la precedenza donne in stato di gravidanza, minori, malati e anziani. Una donna viene portata via in barella e accompagnata in ospedale, i più invece ricevono assistenza sul molo. Lo sbarco va avanti a rilento sotto l’impietoso sole di mezzogiorno, perché una direttiva ministeriale da oggi impone che le procedure di identificazione vengano effettuate prima dello smistamento nei diversi centri d’accoglienza individuati dal ministero. Una prassi che di settimana in settimana diventa sempre più complessa. Le Regioni sono sempre più restie ad accogliere migranti, i centri scoppiano e l’irrigidimento dei controlli alla frontiera sta rendendo sempre più lunga la permanenza dei produghi in Italia, in passato usata dai più come tappa di un viaggio che aveva il Nord Europa come destinazione finale.

SCARICABARILE INTERNAZIONALE Ma sulla pelle di chi fugge dalla propria terra per assicurarsi un futuro, ormai da mesi, si consuma un tragico scaricabarile internazionale. L’emergenza – divenuta tale perché per troppo tempo ignorata – non si affronta, si dribbla. A pagare le conseguenze sono i migranti, intrappolati nella terra di nessuno, stretta fra il Mediterraneo che hanno vinto e frontiere che non riescono a varcare, e chi alle porte d’Europa – la Calabria, la Sicilia – fa quello che può per fornire loro assistenza. Anche il progetto dei Catrambone risponde a questo spirito. «Vogliamo essere una risorsa in più, per questo l’anno scorso abbiamo lavorato con Mare Nostrum e oggi ci coordiniamo con Frontex».

LA SCOMMESSA MOAS Basato inizialmente sulla sola generosità dei coniugi Catrambone, da quest’anno il Moas ha fatto partire una raccolta fondi per finanziare le proprie attività: «L’anno scorso mio marito e io abbiamo sponsorizzato tutto il progetto perché volevamo vedere se fosse possibile passare da un’idea ad una realtà. I primi mesi di lavoro ci hanno fatto capire che la cosa poteva funzionare e a novembre del 2014 abbiamo lanciato la raccolta fondi tramite il nostro sito». Diversi imprenditori – come il tedesco Jürgen Wagentrotz che si occupa della fornitura del carburante – hanno scelto di sostenere il progetto che divora circa 500mila euro al mese, ma anche Medici senza Frontiere ha voluto affiancare i coniugi Catrambone nella loro missione. «Abbiamo ricevuto una richiesta dalla sede centrale di Amsterdam e siamo stati felicissimi di accoglierli a bordo. Loro si occupano del post soccorso e noi della ricerca e salvataggio in mare».

PARTNERSHIP CON MSF Grazie a Msf, dice Gabriel Casini, humanitarian affairs officer di Msf, sulla Phoenix c’è una squadra che «fa una prima selezione dei bisogni medici a bordo. Abbiamo una clinica a disposizione che ci da la possibilità di trattare una grande varietà di casistiche, dagli interventi di base alla rianimazione di persone quasi affogate, ci occupiamo di reidratare i pazienti, nutrirli, ma soprattutto assistere i tanti che arrivano al limite dell’ipotermia». Nessuno è affetto da patologie gravi, fra migranti e profughi sono per lo più diffusi i problemi fisici di chi affronta viaggi in mare in condizioni disumane – scabbia, pediculosi, ustioni, disidratazione, denutrizione – come condizioni croniche aggravate da un duro viaggio, asma, diabete, problemi cardiovascolari o legati a parto o gestazione. «Ovviamente – aggiunge Gabriele – ci sono traumi psicologici dovuti al viaggiåo che hanno intrapreso nei mesi o negli anni passati e molti segni di tortura, quindi fratture che si sono saldate in modo sbagliato, tagli, ferite da armi da fuoco, segni di frustate, bastonate, bruciature di sigaretta».

 

TORTURE, ABUSI E POI UNA BUSSOLA… Sevizie inflitte indifferentemente a uomini e donne, che in più sono spesso vittime di abusi sessuali. «Purtroppo ci sono molte donne che ci raccontano di essere state vittime di violenze sessuali in Libia. Generalmente vengono divise dagli uomini, portate in posti separati dove vengono abusate dai carcerieri». Quando si stancano di loro, le lasciano partire. Ma anche il viaggio è un azzardo. «Le piattaforme petrolifere vengono utilizzate come segnale nella notte, perché queste persone, dal momento in cui vengono messi sulla barca, non hanno idea di dove andranno. Viene data loro una bussola e gli si dice di andare verso nord e seguire le luci. Per questo noi stiamo sempre in quella zona, che chiamiamo di ricerca e salvataggio in mare, a cinquanta – sessanta miglia dalla costa libica». Una ricerca che sempre si conclude con recupero e salvataggio di centinaia di persone ammassate come merci  su barche poco più stabili di gusci di noce, che disperatamente bussano alle porte di un’Europa che per loro è sogno di libertà, ma da mesi ormai si è convertita in invalicabile fortezza.

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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