Una cosa è certa. Il commissariamento della sanità calabrese durerà almeno altri tre anni. Ciò accadrà, verosimilmente, per il perdurare della cause che lo hanno a suo tempo determinato, ancora attuali con l’aggravante della complicità gestoria del governo centrale e dei suoi nominati commissari, che hanno fatto e fanno le cose che fan tutti. È, infatti, attuale l’incertezza dei conti consolidati che si sono strumentalmente sottaciuti negli anni appena trascorsi per guadagnare qualche indebita medaglietta al (de)merito. Non solo. È di tutta evidenza la mancata erogazione dei Lea, che perdurerà ad libitum. Almeno sino a quando non saranno:
a) compreso cosa bisognerà chiudere a fronte di ciò che si dovrà costruire, anche a fronte del recente regolamento sugli standard ospedalieri, approvato con il decreto interministeriale n. 70/2015, che ci farà vedere i sorci verdi nella sua corretta attuazione, considerati i requisiti prebellici sui quali si fonda il sistema della spedalità calabrese;
b) constatati i risultati riguardanti la conseguenziale mobilità infra-regionale funzionale alla definizione di un organico sufficiente a garantire l’esigibilità del diritto alla salute dei calabresi, soprattutto a quelli della consistente periferia;
c) resi operativi i relativi concorsi pubblici strumentali al completamento delle truppe professionali, senza le quali non si va da nessuna parte;
d) riviste le regole dell’accreditamento, magari da stabilizzare sul criterio “per funzioni”, che fino ad oggi ha fatto patire tanti e gioire alcuni, anche attraverso garanzie indebite di “trasferimento” dello status, ratificando volontà private senza fare riferimento alcuno al fabbisogno epidemiologico relativo, mai rilevato;
e) ridefinite le modalità di perfezionamento dei relativi contratti con i privati assicurati a chiunque senza valutazione alcuna in termini di obiettiva comparabilità;
f) pensate le migliori linee guida per la (molto) prossima stesura degli atti aziendali, resi fino ad oggi strumentali a conseguire le migliori postazioni dirigenziali dei clientes prescindendo dal risultato da conseguire in termini di prefigurazione delle singole aziende della salute.
E poi tante altre cose, tra le quali, il perseguimento delle collaborazioni con i convenzionati (medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e farmacie) alle quali strappare cooperazioni aggiuntive, a costo zero, tanto utili ad elevare la soglia dell’assistenza territoriale. Una assistenza, questa, venduta per prossima, ma neppure pensata.
Questo è lo stato dell’arte, inconfutabile e negativamente vissuto dai calabresi sulla loro pelle, spesso nell’indifferenza totale della politica!
Quanto a quest’ultima – meglio al suo modo di non essere più tale di come si soleva considerarla ai tempi di Berlinguer – in Calabria potrebbe riassumersi il manuale delle peggiori esperienze. Di quelle complicità che hanno fatto sì che emergessero le peggiori malefatte, sino ad oggi mantenute sotto cenere anche da parte di chi era tenuto a «fare le pulizie di Pasqua».
Un brutto esempio anche in termini di (s)leale collaborazione tra le diverse istituzioni impegnate in proposito. Il riferimento va ai rapporti mantenuti tra Regione e governo, tra Regione e commissari ad acta, tra ente regionale commissariato e aziende, tra tutti e i cittadini.
Una confusione totale sui compiti, primo fra tutto quello di sottrarre al consiglio regionale e alle associazioni, sindacali e categoriali, la competenza programmatoria, ma finanche il dibattito, al quale tutti hanno abdicato, supponendo di godere dei favori da ottenere dall’organo di supplenza, nei confronti del quale spesso hanno sbavato complimenti e attribuito promozioni inconcepibili.
Bene hanno fatto le senatrici Lo Moro e Dirindin a rivendicare, mediante una interrogazione ad hoc, in capo alla Regione il ruolo sottrattole dall’attuale commissario ad acta, che decide troppo e male, nel senso di escludere l’istituzione di riferimento dalla costruzione della salute calabrese. Un modo per rendersi, da una parte, avido nei confronti della formazione del prodotto democratico e dell’ente che lo garantisce e, dall’altra, incomprensibilmente generoso nel dividere la torta della già Fondazione Campanella.
Ad Oliverio il compito di pretendere, anche energicamente, l’esercizio del suo ruolo.
Al governo Renzi l’obbligo di garantire ciò che la Costituzione pretende, magari tirando le orecchie ai propri commissari allorquando si allontanano un po’ troppo dall’interesse pubblico e violano i principi della democrazia elettiva.
*Docente Unical
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