REGGIO CALABRIA Sono condanne per oltre un secolo di carcere quelle piovute per decisione del gup Olga Tarzia su vecchie e nuove leve della cosca Bellocco, imputate nel processo abbreviato Sant’Anna, scaturito dall’inchiesta che ha fatto saltare i piani del patriarca Umberto Bellocco, dopo la scarcerazione, personalmente impegnato a ristabilire gli equilibri criminali nella “sua” Rosarno. Un’egemonia insidiata dalla famiglia Pesce e che l’anziano boss si apprestava a difendere, non solo tornando a rivestire la direzione strategica del clan, ma se necessario, anche con la forza.
Proprio per questo, la condanna più alta va proprio all’anziano boss, condannato a 18 anni, mentre è di 13 anni e 8 mesi, la richiesta di pena inflitta al nipote e delfino, Umberto Emanuele Oliveri. Solo di qualche mese minore è la condanna decisa per Salvatore Barone, punito con 13 anni e 4 mesi, mentre 11 anni vanno ad Elvira Messina. È addirittura più alta di quella chiesta dal pm Matteo Centini, che per lui aveva invocato qualche mese in meno, la condanna a 10 anni e 8 mesi di reclusione decisa dal gup Olga Tarzia per Domenico Bellocco classe 87, mentre è di 9 anni e 4 mesi la pena inflitta a Giuseppe Ciraolo. Rimedia qualche mese in meno Francesco Oliveri, condannato a 9 anni, mentre è di 8 anni e 4 mesi di carcere la pena inflitta a Michele Forte.
Pene minori sono state inflitte anche ai tredici imputati, arrestati nella seconda tranche dell’operazione, accusati di favoreggiamento personale aggravato dalle modalità mafiose per aver agevolato la latitanza del 34enne Giuseppe Pesce. Due anni 8 mesi e 10 giorni sono andati ad Antonella Bartolo classe 84 e Domenico Corrao, mentre è di 2 anni e 4 mesi la condanna inflitta a Rosanna Bartolo. Pur con pena sospesa, sono stati condannati tutti a 1 anno, 9 mesi e 10 giorni Domenico Bartolo, Antonella Bruzzese, Mercurio Cimato, Massimo Paladino, Salvatore Zangari e Giorgio Antonio Seminara. Unica fra gli imputati ad essere assolta è Francesca Spagnolo, per la quale il pm aveva chiesto 2 anni, 5 mesi e 10 giorni di condanna.
RESTAURAZIONE DI UN IMPERO CRIMINALE Fatta eccezione per i favoreggiatori, per gli inquirenti gli imputati del procedimento Sant’Anna sono tutti responsabili a vario titolo di associazione mafiosa e porto e detenzione illegale di armi e munizioni, aggravati dalle finalità mafiose, perché tutti avrebbero in diverso modo collaborato alla rapida restaurazione dell’impero criminale che il boss Bellocco aveva visto vacillare. Ventun’ anni di carcere sono lunghi e nonostante l’anziano patriarca non avesse mai smesso di impartire ordini e direttive, trasmessi all’esterno – testimoniano i video del Ros agli atti dell’inchiesta – dai familiari che regolarmente lo incontravano a colloquio, appena uscito dal carcere ha dovuto far sentire tutto il peso del suo carisma criminale per ristabilire gli equilibri nella “sua” Rosarno. Spogliata dei capi condannati a lunghe pene detentive, assottigliata nei ranghi dalle innumerevoli operazioni che l’hanno colpita, la cosca attendeva con ansia la scarcerazione dell’anziano Bellocco – come uno dei nipoti del boss, Umberto Emanuele Olivieri – confidava, intercettato, a un amico in chat: «Hermano sta x uscire dal carcere mio zio che si chiama come me… E a lui devono dare conto tutta la Calabria». Appoggiato da un esercito di nipoti «cresciuti nel mito dello zio detenuto», l’anziano patriarca si sarebbe immediatamente dato da fare per riattivare l’attività del clan, come per incontrare altri boss di pari peso criminale del circondario, come quel Teodoro Crea di Rizziconi che non riuscirà a incontrare, solo perché colpito da una nuova misura cautelare.
TUTTA COLPA DELLA MICROSPIA A svelare a inquirenti e investigatori le manovre di Umberto Bellocco è stata la microspia piazzata nella sua abitazione. Ascoltando l’anziano patriarca gli investigatori hanno infatti avuto modo di raccogliere innumerevoli elementi sui futuri progetti del clan, che sotto la guida del boss – “uomo di rispetto” anche per altri clan come i Caporosso della Sacra Corona Unita – mirava a riprendere il predominio su Rosarno, scalzando i Pesce. Un progetto per il quale il clan poteva contare su un proprio arsenale, che non avrebbe avuto alcuna difficoltà né esitazione ad ampliare, anche grazie ai proventi derivanti dai traffici di droga gestiti nel porto di Gioia Tauro. Un “ramo di attività” appaltato dal “capo” al nipote Umberto Emanuele Olivieri, già oggetto di approfondimenti investigativi da parte della Guardia di finanza, perché individuato quale reggente degli interessi della potente cosca nei traffici illeciti all’interno del porto di Gioia Tauro.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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