CATANZARO Dopo l’omicidio di Rombolà la tensione all’interno dello stesso clan Sia-Procopio-Tripodi è altissima. A riferire l’aria infuocata che si respirava in quei giorni sono due collaboratori di giustizia: Bruno Procopio e Gianni Cretarola. Quest’ultimo è un soggetto particolare. Nato a Sanremo da una famiglia di origini calabresi, Cretarola racconta agli inquirenti: «Fin da ragazzo avevo l’aspirazione di essere un affiliato della mafia, mi son sempre dato da fare, passando dal piccolo spaccio di droga al furto di motorini fino all’omicidio». Il suo ingresso ufficiale nel mondo della ‘ndrangheta avverrà nel carcere di Sulmona. Cretarola diventa collaboratore dopo l’arresto per l’omicidio del boss Vincenzo Femia avvenuto a Roma il 24 gennaio 2013. Era venuto in contatto con i sodali del clan soveratese in Lombardia e in particolare con Carmelo Novello, ucciso a Milano nel luglio 2008. Nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore della Dda Vincenzo Capomolla, Cretarola racconta di avere più volte incontrato Davide Sestito e Procopio Agostino al fine di ricevere la fornitura di armi per le attività illecite. Davide Sestito e Agostino Procopio (ucciso il 23.7.2010) erano molto legati e insieme conducevano diverse attività illecite. Ma la posizione di Sestito in seno al clan aveva cominciato a vacillare dopo la morte di Agostino. Non era stato considerato di buon occhio il fatto che Sestito si fosse allontanato dalla Calabria dopo la morte dell’amico, una cosa che aveva ferito profondamente – riferisce Cretarola – Fiorito Procopio, padre della vittima. Ma non basta. Il giorno dell’omicidio di Rombolà (ritenuto artefice della morte di Agostino), accanto a lui sulla spiaggia di Soverato c’era anche la moglie di Sestito (sorella della compagna di Rombolà). Fiorito Procopio – racconta Cretarola – rimproverava a Sestito che lui avrebbe dovuto uccidere Rombolà per vendicare l’amico, invece di partire e far andare sua moglie sotto l’ombrellone del rivale. La tensione era tale che all’incontro con Fiorito e Michele Lentini a Roma, a settembre 2010, Sestito e Cretarola andarono armati. «[…] noi eravamo a bordo di una Smart, Davide Sestito con una 32 a tamburo e io con una 9 mm Luger, questo era il clima che si respirava, quindi nonostante eravamo componenti delle stesse fazioni, noi eravamo perfettamente armati, già col colpo in canna».
«NON HO PACE FINCHÉ NON HO STERMINATO FINO ALL’ULTIMO FIGLIO MASCHIO» Davide Sestito – racconta Cretarola – durante l’incontro si mette a disposizione del clan «se c’è qualcosa da fare». Ma Fiorito Procopio lo avrebbe redarguito: «Non è questo il modo di pensare, non è se… perché noi già a casa nostra non va a dormire più nessuno, che noi siamo latitanti volontari e stiamo vivendo notte e giorno solo per ammazzarli a tutti, perché io finché non ho sterminato fino all’ultimo, fino a pure al figlio maschio più piccolo, io non ho pace. Poi non mi interessa, l’ergastolo me lo sono guadagnato ma fino ad allora io non avrò pace».
I PIANI PER UCCIDERE ROMBOLÀ Vivevano per ammazzare Ferdinando Rombolà. Lo seguivano, conoscevano le sue abitudini. Quello che bisognava stabilire era quale fosse il momento e quali le modalità migliori per ucciderlo. Uno di questi era di intercettare la vittima lungo il percorso che questa effettuava per la consueta passeggiata con il figlio Maicol, dieci mesi. L’intento era quello di sopprimere Rombolà senza attentare all’incolumità del bambino.
Un’intercettazione ambientale tra due sodali della cosca, Alberto Sia (figlio di Vittorio) e Patrick Vitale, dà prova di questo piano.
Patrick Vitale: Era buono, era meglio seguirlo e farlo subito… o no?
Alberto Sia: … con il passeggino… gli tiri una botta in testa… cade in terra… il passeggino… mica il bambino lo tocchi… scusa…
Patrick Vitale: Perché senti… se malauguratamente lui ha qualcosa… noi abbiamo solo il bastone…
Alberto Sia: No… quale bastone… quale bastone…
Patrick Vitale: E allora… quando gli tiri la botta in testa… là… lo lasci non è che…
Alberto Sia: Se guardi… lui… tutte le mattine si fa la passeggiata con il bambino… di là dove hanno portato il furgone…
Il piano non verrà messo in atto ma, secondo quanto riferisce Bruno Procopio agli inquirenti, la preparazione dell’agguato a Rombolà aveva richiesto un mese. Per un mese la vittima viene seguita, appostata sotto casa, sempre usando auto diverse, a volte andavano a piedi sotto casa e vi si parcheggiavano per ore. Una sera – racconta il collaboratore – avevano visto uscire Rombolà ma a causa del passaggio di una pattuglia avevano dovuto desistere, abbandonando le armi in un cespuglio nel piazzale di un autolavaggio. Dopo un mese avevano abbandonato l’idea di colpirlo sotto casa e avevano deciso di spostare il luogo dell’agguato sulla spiaggia che la vittima frequentava.
Alessia Truzzolillo
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