REGGIO CALABRIA Vista dal basso, la struttura dell’Unitas Catholica, arroccata su una collina non troppo distante dal cuore di Reggio Calabria, sembra un’inespugnabile cittadella. Ma basta percorrere la ripida strada d’accesso per scoprire che nelle palazzine della fondazione da tempo si sono fatti strada degrado, emarginazione, abbandono, incuria e sporcizia. «Se trovassimo un minore in queste condizioni chiederemmo alla procura di toglierlo alla famiglia subito – dice un’educatrice -. Eppure queste sono le condizioni in cui siamo costretti a operare». Pochissimi degli ambienti dove un tempo erano ospitati fino a 180 ragazzi, oggi sono abitati. Molte ali sono chiuse per lavori di adeguamento iniziati e mai conclusi per mancanza di fondi, ma lì – fra travi sventrate e impianti con fili a vista – vivono ancora più di quaranta minori. E nella zona dedicata ai migranti le condizioni superano di gran lunga i limiti della decenza.
MATERASSI A TERRA E ACQUA (FREDDA) A SINGHIOZZO Vi si accede attraverso una scala sporca, dove i disegni di chi era bambino vent’anni fa si mischiano a pane raffermo, noccioli di pesche, foglie, cartacce, cicche di sigaretta, un paio di pinne vetuste e abbandonate lì senza un perché. Il corridoio, illuminato solo dalla luce che entra dalla porta d’accesso alla terrazza – divelta e abbandonata a terra – non è da meno. Come non sono da meno le camerate. Nelle stanze, destinate in teoria ad ospitare due ragazzi, sono assiepati in tre, a volte anche quattro. I materassi quasi si toccano, fra vestiti affastellati alla rinfusa e che traboccano dagli armadi distrutti. Una situazione che diventa insopportabile con l’afa estiva, tanto da costringere molti a trasportare i materassi in veranda, in cerca di un po’ di brezza.
Inutile sperare in un ventilatore. Non c’è, come non ci sarebbe neanche la corrente necessaria per farlo funzionare. Dopo mesi di morosità, la società che gestisce la fornitura elettrica ha ridotto il voltaggio. Ma qualche tempo fa – dice chi ci lavora – hanno addirittura tagliato la corrente, salvo poi ripristinarla grazie a qualche donazione che ha permesso di superare l’emergenza. Il telefono invece è definitivamente muto da tempo. Anche l’acqua calda da tempo è solo un lontano ricordo. Estate o inverno che sia, i ragazzi sono costretti a lavarsi con l’acqua gelida, se non addirittura in giardino. Se non c’è corrente, perché viene tagliata, anche la centralina si ferma e agli ultimi piani l’acqua non arriva.
ANCHE IL CIBO SCARSEGGIA I ragazzi si arrangiano come possono. Del resto, per gran parte del giorno rimangono soli. Con il personale decimato, a garantire assistenza ai ragazzi, stranieri e non, sono rimaste meno di una decina di persone fra autisti, amministrativi, addette alle pulizie e alla cucina, educatrici, mediatori culturali e assistenti sociali. Pur rimanendo spesso ben oltre l’orario di servizio, non possono sopperire alla drammatica mancanza di personale, dimessosi nel corso dei mesi via via che le mensilità non pagate si accumulavano fino a raggiungere quota 39. Una situazione insostenibile per i molti che hanno firmato per andare via, e anche per chi resta e cerca a mani nude di fermare il declino. Ma soprattutto per i ragazzi, troppo presto e troppo spesso chiamati a contare sulle sole proprie forze. La sera in struttura non rimane nessuno e sono loro a dover gestire i pasti che vengono cucinati a fatica durante la giornata. Il menu non è e non può essere vario perché troppo spesso mancano i soldi per fare la spesa e i fornitori a volte si stancano di lasciare merce a credito. «Ci sono stati dei giorni – dice Marcella Ritto, assistente sociale che da decenni lavora nella struttura – che non c’era una bottiglia di olio e due pomodori per fare un sugo. Poi arriva sempre qualche offerta che permette di mettere qualcosa a tavola a pranzo».
AFFIDATI A CHI? La sera, oltre a riscaldare il pasto che viene lasciato pronto, toccherebbe ai ragazzi provvedere alla pulizia. Ma questo spesso non avviene e in struttura non c’è nessuno che lo verifichi. I cucinotti di cui ogni piano è dotato diventano campi di battaglia, mentre i bagni in disuso – e sono molti – diventano luogo privilegiato per “parcheggiare” pentole e piatti sporchi, bricchi per il the. Anche delle aule studio e di quelle dedicate ai progetti rimane poco. Quello che era il laboratorio di falegnameria è solo un magazzino di mobilia rotta, della bottega del barbiere rimane solo uno specchio sporco e ciocche di capelli rimaste a mischiarsi con la polvere a terra. Non è possibile chiedere ai ragazzi che progetti si portassero avanti in quelle aule. E non per particolari norme di sicurezza o tutela. Ma semplicemente perché non ci sono. Adesso che le scuole sono finite – spiegano dal personale – i ragazzi si allontanano per andare al mare o per cercare qualche lavoretto: «Non sappiamo dove passino le giornate». I tempi in cui la struttura forniva agli ospiti anche la possibilità di andare al mare o di rinfrescarsi nelle piscine gonfiabili che erano state acquistate allo scopo sono finiti.
CONTINUANO GLI INGRESSI «Il declino – spiega Marcella Ritto, assistente sociale da decenni all’Unitas – è iniziato circa due anni e mezzo fa e la situazione è andata sempre peggiorando. Il 14 di luglio scorso abbiamo voluto far sentire la nostra voce organizzando una protesta nei nostri locali – perché noi la struttura non la abbandoniamo – per mettere al corrente tutti della situazione in cui versano principalmente i minori. Non ci sono soldi per i servizi, viene garantito lo stretto necessario, siamo a corto di personale perché in questi anni di attesa degli stipendi, in molti hanno scelto di lasciare. Noi quest’anno abbiamo ricevuto un solo stipendio, ma per me – specifica – è l’ultimo dei problemi. Il vero dramma è che qui oggi non vediamo prospettive». Nel frattempo però i minori continuano a essere affidati alla struttura, con l’assenso dell’amministratore delegato che approva ogni ingresso sollecitato dalla Prefettura o dalla Procura. Ma chi nella struttura ci lavora quei minori non sa come sostenerli.
I RITARDI DELLA REGIONE. E LA CURIA? Il loro mantenimento dovrebbe essere assicurato dalla Regione, che – come ovunque in Italia – si fa carico dei minori abbandonati pagando le rette delle strutture che li ospitano, destinate a coprire sia il mantenimento dei ragazzi che gli stipendi degli operatori. Da Palazzo Alemanni, i soldi arrivano al Comune che si occupa di liquidarli alla Fondazione, tuttavia negli anni si sono accumulati ritardi: «Da una parte la Regione chiede il servizio specialistico gestito da figure professionali, dall’altro i finanziamenti sono quelli che sono, con i ritardi che ci sono». E i fondi regionali sono l’unica entrata per la struttura.
Nonostante la Fondazione sia di matrice cattolica, con un cda e un amministratore delegato individuato personalmente dal vescovo Mondello, la C
uria non ci mette un euro. Non contribuisce per nulla al mantenimento delle attività. «Dalla Curia non abbiamo mai ricevuto nulla, anche se presidente rimane sempre suor Maria Grazia, che nel ’53 ha fondato la struttura, e amministratore delegato e’ monsignor Antonello Foderaro. Per statuto, il cda è formato da 5 membri laici e quattro di nomina arcivescovile». E se l’ad – dicono – «si è presentato in struttura solo prima di Natale e prima di Pasqua», il consiglio d’amministrazione in struttura nessuno l’ha mai visto: «Il vecchio consiglio era scaduto e l’amministratore ci ha detto che è stato rinnovato, ma non sappiamo chi siano adesso i membri. Non li abbiamo mai visti». Ma il problema non è solo questo.
SILENZI ECCLESIASTICI Quando i lavoratori – a fronte delle crescenti difficoltà, anche personali – hanno provato ad avere i bilanci della Fondazione – si sono scontrati con un muro di gomma. Ogni richiesta è stata regolarmente ignorata. «Noi stiamo cercando di fare chiarezza sulla situazione – dice Giusy Lacava, legale dei dipendenti, fra i quali c’è anche il padre – perché a nostro avviso si potrebbe risanare la situazione. Si potrebbero adottare nuove iniziative, un prestito, per questo abbiamo chiesto di avere accesso a una serie di documenti, fra cui i bilanci, che legittimassero la figura del nuovo amministratore, ma le nostre richieste non hanno avuto riscontro. Abbiamo fatto ricorso al Tar e lo abbiamo vinto, la sentenza è stata notificata in struttura, ma anche questo non viene riconosciuto». Ai lavoratori, spiega l’avvocato La Cava, è stato detto che la notifica di fatto ancora non è avvenuta. «La comunicazione è avvenuta lo stesso giorno del deposito della sentenza, ma il legale dell’amministratore ha negato che questa sentenza sia stata notificata. Quindi noi abbiamo provveduto a rifare la notifica pur di avere questi documenti, ma sono passati quindici giorni e siamo ancora qui ad aspettare». I lavoratori non si rassegnano: «Noi – conclude il legale – proseguiremo su questa strada con un giudizio di ottemperanza, anche se sarà difficile raccogliere i soldi per il contributo unificato. Anche per fare ricorso al Tar è stata fatta una colletta».
MA I SOLDI SONO ARRIVATI Nel febbraio scorso, tramite l’accesso agli atti del Comune però qualcosa i legali l’hanno scoperta. Dall’ottobre 2011 all’aprile del 2014 sono stati liquidati alla struttura oltre 700mila euro. Altri soldi – di cui al momento non si ha precisa cognizione – sono stati versati per l’asilo comunale chiuso l’anno scorso, che costava a Palazzo San Giorgio 15mila euro al mese, secondo i lavoratori regolarmente versati fin quando non è stato soppresso. «Quando monsignor Foderaro si è insediato ha trovato una situazione delicata, perché avevamo già 13 mensilità arretrate. Tuttavia, questa Fondazione ci ha messo sessant’anni per accumulare 13 mensilità di scoperto, lui ci ha messo 26 mesi per arrivare a quota 39». Dopo la manifestazione, a cui monsignor Foderaro si è presentato su sollecitazione della Digos, è stata chiesta la convocazione di un tavolo tecnico in prefettura per risolvere la situazione, ma ad oggi, quindici giorni dopo – dicono i lavoratori – «non abbiamo ancora saputo nulla». E “nulla” ha risposto la Curia quando una delegazione dei dipendenti si è presentata per spiegare quanto fosse drammatica la situazione. «Insieme ad un altro legale abbiamo incontrato il vescovo, ma ci ha detto di non poter fare nulla». Eppure il vescovo, proprio perché è di sua nomina l’amministratore delegato della fondazione, avrebbe il dovere di visionare e approvare i bilanci. I lavoratori invece non sono riusciti neanche a presentare personalmente le proprie istanze. «Io – dice Immacolata Barbaro, ex educatrice che ha abbandonato da mesi la struttura, perché i mancati versamenti dei contributi la privavano persino del diritto all’assegno di maternità – sono stata personalmente dal vescovo ma il suo segretario mi ha detto che non era possibile, che qualsiasi cosa avessi da chiedergli avrei dovuto metterla per iscritto e lui per iscritto avrebbe risposto in modo che non venissero travisate le sue parole». E Immacolata ha scritto. Non alla Curia, ma alla procura dei minori.
ANCHE LA PROCURA DEI MINORI TACE Insieme alla collega Maria Cristina Morabito, il 27 maggio scorso ha presentato un dettagliato esposto in cui si spiegavano le terribili condizioni ambientali in cui più di quaranta ragazzi erano all’epoca e sono ancora costretti a vivere. Dall’emergenza rifiuti con il proliferare di topi nella struttura alla mancanza di acqua, alle inesistenti condizioni igienico sanitarie nelle camerate all’impossibilità di offrire servizi, sono molte le carenze che le due educatrici hanno segnalato ai magistrati della procura dei minori, chiedendo loro di indagare «sulla condizione di degrado che sta vivendo la fondazione, per il bene dei minori che vivono all’interno di quelle mura, e che da qualche mese devono patire anche la problematica legata al cibo, mancano infatti beni alimentari di prima necessità, come prodotti per l’igiene personale». Ma nulla si è mosso. E l’acqua continua a mancare. Il cibo a scarseggiare. I ragazzi a sopravvivere. Mentre c’è chi teme che per l’Unitas qualcuno sogni un’altra destinazione a maggiore spendibilita’ sul mercato. Immobiliare e non.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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