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La verità sul sequestro arriva 38 anni dopo

REGGIO CALABRIA Sequestrata, stuprata dai suoi carcerieri, brutalmente uccisa a bastonate e seppellita malamente nei pressi di un casolare di montagna. A trentotto anni di distanza dalla sua scompa…

Pubblicato il: 03/08/2015 – 9:48
La verità sul sequestro arriva 38 anni dopo

REGGIO CALABRIA Sequestrata, stuprata dai suoi carcerieri, brutalmente uccisa a bastonate e seppellita malamente nei pressi di un casolare di montagna. A trentotto anni di distanza dalla sua scomparsa, un’informativa depositata agli atti dell’operazione Platino, fa luce sulla sorte di Maria Angela Severina Passiatore, moglie dell’imprenditore milanese Sergio Paoletti, rapita la notte del 28 agosto del ’77 a Brancaleone e mai più tornata a casa.

 

IL RAPIMENTO Era serata calda di fine estate, una delle ultime lunghe ferie che la coppia di Cinisello Balsamo aveva voluto trascorrere sul litorale jonico reggino. I coniugi Passiatore stavano cenando nel patio della loro villa di contrada Caldora con una coppia di amici, Claudio Brambilla di 37 anni e sua moglie Angela Mariani di 35, entrambi di Melzo. Ma alle 22.30 cinque uomini armati e mascherati fanno irruzione nella villa e sbattono tutti contro il muro. Arraffano a man bassa soldi e gioielli – racconterà più tardi l’imprenditore – ma quando vanno via portano con sé Mariangela, lasciando un loro uomo alla villa per evitare che venisse diramato l’allarme. Quando anche l’ultimo dei sequestratori va via – sono ormai le 2 del mattino – Sergio Paoletti chiama i carabinieri. Ma di Mariangela non si saprà più niente. La cercano inutilmente le forze dell’ordine. La cerca un amico di famiglia della Locride, il commerciante 45enne Giulio Cotroneo, ma – forse fa domande alla gente sbagliata, forse si avvicina troppo alla posta giusta – il 13 settembre viene ucciso a colpi di lupara a Bruzzano Zeffirio.

passiatore

(La foto di Maria Passiatore sui giornali ai tempi del sequestro nella Locride)

 

DUE TELEFONATE DI RIVENDICAZIONE, POI IL SILENZIO Alla famiglia arrivano due telefonate dai sequestratori, che si trincerano malamente dietro la sigla Brigate rosse. «Siamo le Brigate rosse — dice la prima, resa improbabile da un pesantissimo accento calabrese— preparate un miliardo. Vi daremo presto altre istruzioni». Paoletti è disperato. Un miliardo non ce l’ha, non sa dove prenderlo. Lo dice e lo ripete a tutti i giornali, sperando che la notizia arrivi alle orecchie dei sequestratori, lo dice in paese, a Brancaleone, da dove non è voluto andare via. E la notizia arriva alle orecchie giuste, Passiatore riceve infatti una seconda telefonata. I sequestratori chiedono “solo” 150 milioni, promettono di farsi sentire nuovamente per spiegare le modalità di consegna, ma quella sarà l’ultima telefonata. Di Mariangela non si saprà più nulla. A far breccia nel pantano di silenzio e omertà in cui è sprofondata non serviranno neanche i 30 milioni che Passiatore offrirà per sapere almeno dov’è seppellita – con il passare dei mesi si è convinto della morte di Mariangela – ma quella richiesta veicolata attraverso annunci a tutta pagina comprati sui quotidiani milanesi «Il Giorno» e «La Notte», e sul «Giornale di Calabria», rimarrà lettera morta. Ma Sergio Paoletti non smette di sperare di poter avere almeno una tomba su cui piangere la moglie e con questa speranza si spegnerà il 18 settembre del ’95. Perché qualche smozzicata notizia sulla sorte della donna venga fuori, bisognerà aspettare altri vent’anni.

 

LE INVOLONTARIE RIVELAZIONI DI MICHELE GRILLO La captano i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano ascoltando Michele Grillo, insieme ad Angelo Catanzariti, tra i “pionieri” della ‘ndrangheta sotto Madonnina e principali indagati dell’indagine Platino. Vecchi arnesi delle ndrine, già condannati a 18 anni il primo e a 19 il secondo per il rapimento dell’imprenditrice Tullia Kauten. Da sempre nell’orbita dei Barbaro – Papalia, che a Corsico hanno fondato la “Platì del nord”, Grillo e Catanzariti sono la memoria storica della ‘ndrangheta fra le nebbie. Per questo, ascoltandoli, gli investigatori non solo sono riusciti a ricostruire gli attuali assetti dei platioti al nord, ma anche ad avere elementi preziosi per ricostruire delitti antichi e per decenni rimasti insoluti, come l’omicidio del brigadiere Marino, ucciso nel settembre del ’90 a Bovalino, e quello di Giuseppe De Rosa, capetto dei rom del sud Milano, freddato nel ’76 alla discoteca Skylab. Ma agli investigatori e ai pm Paolo Storari e Giuseppe D’Amico che li coordinano, Michele Grillo ha fornito solidi elementi per riaprire anche il caso di Mariangela Passiatore. Può farlo perché proprio lui è stato uno dei responsabili del sequestro della donna.

 

IL “BRUTTO RICORDO” DEL SEQUESTRATORE È la sera del 22 aprile del 2012. Grillo è in macchina con l’amico Luciano Scarinci, parlano – non senza malinconia – dei “vecchi tempi” della stagione dei sequestri, quando – racconta Grillo al più giovane Scarinci – «si rischiava meno,ma si buscava meno», perché nei rapimenti bisognava coinvolgere molte persone, «perché dopo andavamo, andavamo… due… e ci ritrovavamo in ventidue. C’era la fame, c’erano i pidocchi…». Per assicurarsi il silenzio necessario a non far ritrovare le tane dei sequestrati, bisognava vincolare la gente del posto. Ma non sempre tutto andava liscio. «Per questi “garzoni”, non sapendo trattare una situazione di quelle, dovevano risolvere… Quando scomparivano di qua, di là… Vedi che, queste cose qui sono brutte… un peccato… Mannaja… Ho una cosa, un ricordo brutto: una signora… guarda!». La signora – scopriranno investigatori e inquirenti esaminando la conversazione – era Mariangela Passiatore. Tormentata da un’ulcera intestinale e affetta da un grave esaurimento nervoso per cui era in cura, non era un soggetto facile da gestire. «Quella era nervosa – ricorda ancora Grillo – una persona con problemi… che prendeva medicine, poi tra l’altro le veniva… le prendeva proprio sonno pieno». Il classico effetto dei calmanti che Mariangela Passiatore doveva prendere regolarmente e che proprio Grillo si occupava di comprare in una delle farmacie della zona. Proprio in una di queste occasioni, succede l’irreparabile. È lo stesso sequestratore che lo racconta nei dettagli.

«SE NON SIETE CAPACI DI FARE GLI UOMINI, STATEVENE A CASA» «Ero andato a prenderle le medicine (..) Ero con tre paesani e hanno iniziato a fare domande: a che vi servono? Perché quelli sapevano che si dovevano portare per lei». Domande a cui risponde a brutto muso, mentre in Aspromonte, nel casolare dove la Passiatore è stata nascosta – dopo essere stata prigioniera in una fossa scavata nella nuda terra per poi passare di mano di carceriere in carceriere – quella donna fragile attira le attenzioni degli uomini cui era stata affidata. «Poi torno ed erano là che la stavano stuprando – racconta Grillo -. Sono arrivati e l’hanno trovata che dormiva… io dovevo salire a portare le medicine. Ho trovato questi, questi cornuti… bastardi e cornuti l’hanno ammazzata a bastonate in testa». Un delitto efferato, bestiale, che sembra scuotere anche lo stesso Grillo: «Io non li ho più potuti vedere, gli ho detto: “Se non siete capaci di fare gli uomini, a fare le cose più grandi di voi, statevene a casa”. L’hanno uccisa perché avevano paura, perché non erano capaci di niente». E proprio quel sequestro finito male – ci tengono a sottolineare gli investigatori – sembra cambiarlo. «Il distacco di Grillo dall’ambiente ‘ndranghetistico nel quale è invece completamente immerso Agostino Catanzariti – si legge nell’informativa – probabilmente ha origine proprio nell’episodio del sequestro Passiatore».

 

UNA MISTERIOSA TELEFONATA Ma lui non è l’unico a non condividere le modalità con cui quel rapimento è stato gestito. Agli atti dell’indagine che porterà al processo – conclusosi con un’assoluzione – per Angelo Bello, Fortunato Gallo e Carmelo Scaram
ozzino di Brancaleone, e Leo Alalia trasferitosi a Genova, Giuseppe Favasuli. emigrato in Australia, e Giovanni Stellitano, custode del cimitero di Staiti in cui verranno ritrovati alcuni indumenti della donna, c’è anche una telefonata che il 1° settembre del ’77 un rapinatore pentito fa a casa Paoletti, a Cologno. Risponde una delle figlie della coppia, Luana. Dall’altra parte del telefono c’è un uomo che dice di chiamare dalla Francia, dove è fuggito, proprio perché non condivideva i “metodi” del sequestro. «Io facevo parte di… quando hanno rapito sua madre, io sono andato via perché non volevo accettare… io sono andato via non potevo, ha capito? Sono andato via perché non mi piaceva il metodo ecco, volevo stare fuori da questo pasticcio», dice l’uomo al telefono, che afferma di voler parlare con il padre della ragazza per fornire elementi che possano portare all’identificazione dei rapitori e al ritrovamento della donna. Non è uno dei capi, non fa parte del commando che l’ha prelevata perché – sostiene – «io non ho fatto niente perché io contavo poco, contavo molto poco insomma quelli che l’hanno fatto… io dovevo fare la guardia», né è della zona jonica, «sono di Catanzaro – aggiunge – io sono andato via perché non volevo stare, io volevo parlare con suo padre, perché potevo mettere i carabinieri sulle tracce, per farli prendere tutti e liberare sua madre».

 

«SE LEI NON VUOLE PARLARE CON ME NON POSSO FARE NULLA» La ragazza è confusa, il padre non c’è, è in Calabria dove sta seguendo da vicino le ricerche della moglie, ma lei vuole, forse ha bisogno di sapere come sta la madre, per questo chiede «come ha reagito con i nervi perché mia madre è molto debole ed è molto esaurita in questo periodo, come ha reagito?». Le risposte non sono rassicuranti, l’anonimo rapinatore dice «ha avuto uno shock e penso che sua madre deve essere malata al cuore. (..)Forse forse è stata l’emozione che le ha giocato un brutto scherzo comunque si è ripresa, si è ripresa». Per nulla rassicurata, la ragazza chiede all’uomo di contattare il padre in Calabria, lo prega: «Senta, io non posso fare assolutamente nulla, se lei non vuole parlare con me io non posso fare assolutamente nulla, l’unica cosa che posso fare è dirle di chiamare giù in Calabria all’Altalia lei saprà che è lì all’Altalia mio padre». L’uomo la rassicura: «Sì ,sì, dove lo chiamo mi dia il numero io lo chiamo». Ma quella telefonata – a quanto pare – non avverrà mai. Sulla sorte di Mariangela calerà il silenzio rotto solo – trentotto anni dopo – dall’involontaria confessione di uno dei suoi rapitori.

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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