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Caporalato, la schiavitù della porta accanto

REGGIO CALABRIA Non hanno mai avuto i documenti da quando sono arrivati in Italia, su un barcone o accucciati nel retro di un furgone. Eppure lavorano con un contratto, firmato grazie ai documenti …

Pubblicato il: 21/08/2015 – 11:12
Caporalato, la schiavitù della porta accanto

REGGIO CALABRIA Non hanno mai avuto i documenti da quando sono arrivati in Italia, su un barcone o accucciati nel retro di un furgone. Eppure lavorano con un contratto, firmato grazie ai documenti di qualche amico. Queste sono le “regole” nei campi di Rosarno, pronti a riempirsi di invisibili, nel prossimo autunno, per un nuovo raccolto.
Cinque anni fa, il 7 gennaio 2010, i migranti di Rosarno protestarono contro lo sfruttamento e la violenza della ‘ndrangheta. Da allora però poco sembra cambiato. I lavoratori stranieri ricevono appena 50 centesimi per ogni cassetta di agrumi, ma quasi la metà finisce in tasca ai caporali. Ed è un dato rilevante, in giorni nei quali il ministro alle Politiche agricole Maurizio Martina accosta il caporalato alla mafia e annuncia interventi stringenti. La realtà parla di dodici ore di lavoro al giorno per poco più di 10 euro. È la media per gli oltre duemila braccianti che arrivano ogni anno nella Piana di Gioia Tauro per raccogliere agrumi: la maggior parte proviene dell’Africa sub-sahariana. E, secondo l’ultimo rapporto Medu (Medici per i diritti umani), il 79 per cento vive in insediamenti precari privi di servizi igienici, acqua ed elettricità mentre un migrante su cinque è costretto a dormire a terra per mancanza di un letto. Il lavoro nero, invece, riguarda circa 8 migranti su dieci.

 

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Nulla cambia, anno dopo anno, nonostante a Rosarno, San Ferdinando, Gioia Tauro, Rizziconi e Taurianova i migranti il fenomeno si ripeta sempre con le stesse caratteristiche. «Una vera e propria zona franca – spiega il report “Terraingiusta” – di sospensione della dignità e dei diritti per i lavoratori immigrati». La si può mettere in termini economici: è un sistema a bassa intensità di capitale e alta intensità di lavoro. Ma sarebbe come riconoscere una cultura imprenditoriale alla base dello sfruttamento. Meglio guardare in faccia la realtà.
Che è fatta di lavoro nero, salari bassissimi, strutture di accoglienza inesistenti, degrado e grave carenza di risorse negli ambulatori pubblici per i migranti. Il 79% dei braccianti assistiti dalla clinica mobile di Medu nei mesi in cui ha trovato posto nella Piana, viveva in insediamenti precari privi di servizi igienici, acqua ed elettricità mentre un migrante su cinque era costretto a dormire a terra per mancanza di un letto.
«Il perdurare di pratiche illecite, come quella del caporalato – spiegano i Medici per i diritti umani –, s’inserisce in un quadro segnato dalla grave carenza di credibili programmi di rilancio del settore agricolo in grado di dare respiro all’economia locale. Ciò che sembra mancare del tutto, prima ancora di una puntuale pianificazione dell’accoglienza stagionale per i lavoratori immigrati, è la volontà politica di affrontare quella che è una delle questioni dell’immigrazione più drammatiche, e anche più vergognose, per il nostro Paese».

 

San Ferdinando

Il racconto di Medu muove dall’analisi storica del fenomeno. Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno e memoria storia delle battaglie sociali in quell’area, racconta l’evoluzione delle politiche agricole nella Piana. Dalla raccolta “fatta in casa” si passa, negli anni Novanta, all’arrivo delle prime comunità di braccianti stagionali: sono magrebini e migranti provenienti dall’Europa dell’Est. Poi i numeri crescono, esplodono. Il 60% degli ottomila ettari coltivati ad agrumi in Calabria si trova nella Piana di Gioia Tauro, dove si producono dalle 150 alle 180mila tonnellate di frutta. E, secondo Coldiretti, sono ottomila i lavoratori stranieri impiegati in tutta la regione durante la stagione di raccolta, tremila nell’area di Gioia Tauro. Non c’è nulla di umano in ciò che accade in Calabria: «Nulla sembra essere cambiato rispetto alle condizioni materiali e ambientali che costituirono l’humus dei drammatici fatti di Rosarno del 2008 e del 2010». I semi della rivolta del 2010 sono ancora ben piantati in quella terra. E anche i presupposti per tragedie come quelle accadute in Puglia nelle scorse settimane. Ore e ore passate a raccogliere agrumi, con qualsiasi clima, favoriscono il proliferare di patologia che i “datori di lavoro” certo non si preoccupano di curare. Malattie dell’apparato digerente hanno colpito il 23% degli oltre 200 migranti assistiti dall’ambulatorio mobile di Medu. Le malattie dell’apparato respiratorio, invece, rappresentano il 21% complessivo dei sospetti diagnostici: le infezioni alle vie alte respiratorie e le sindromi influenzali sono diffusissime. Sono tutte patologie che hanno a che fare «con la stagione invernale e con lo stato di precarietà abitativa». Il 16% dei migranti visitati mostra malattie osteomuscolari e del tessuto connettivo, il 10% patologie cardiocircolatorie. «Al 6% – segnala il report – ritroviamo i traumatismi dei quali il 25% è rappresentato da traumi e ferite sul luogo di lavoro e il restante 75% da traumi incidentali. Le malattie della cute e del tessuto sottocutaneo si ritrovano nel 4% dei sospetti diagnostici, di cui il 57% è rappresentato da dermatiti aspecifiche, con sensazione di prurito riferito prevalentemente dopo la doccia. Il 3% dei sospetti diagnostici è riferibile a cause infettivo-parassitarie, delle quali il 62% è rappresentato da micosi cutanee, due casi di Tbc riscontrati nel primo periodo di indagine (uno con Tbc miliare già in trattamento e l’altro con sospetto di Tbc polmonare), tre casi singoli di scabbia e un caso di gonorrea riscontrati nel secondo periodo di indagine. Riguardo alla presenza di malattie parassitarie (scabbia e micosi) si rileva un diretto collegamento con la situazione di precarietà abitativa e la condizione sociosanitaria dei migranti. Le oftalmopatie rappresentano il 3% di tutte le patologie così come i disturbi mentali. Sono stati osservati prevalentemente pazienti con sintomatologia ansiosa e casi di abuso.

 

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Una popolazione giovane e malata, costretta a turni massacranti e praticamente esclusa dall’accesso alle cure: «I quattro ambulatori per stranieri irregolari avviati con il supporto di Medici senza frontiere soffrono di un progressivo degrado e di una grave carenza di risorse. L’ambulatorio di Rosarno, in particolare, presenta rilevanti problematiche strutturali: gli ambienti sono fatiscenti e privi di riscaldamento, i servizi igienici inagibili, le condizioni igieniche generali molto carenti». La separazione tra l’ambulatorio e la sala d’attesa è garantita unicamente da una vecchia tenda, più della metà dei farmaci è scaduta.
La disumanità della porta accanto è invisibile, in una terra che fatica a percepire come tali anche i propri diritti. Lo spiega bene il rapporto nelle conclusioni: «La consuetudine a usufruire di strutture precarie e servizi pubblici spesso gravemente al di sotto di standard accettabili, determina un inevitabile quanto preoccupante innalzamento della soglia di accettazione da parte della popolazione locale, portando la stessa ad avere una percezione attenuata e minimizzata dei fenomeni di abbandono e degrado di cui è vittima anche la comunità migrante».
In questo contesto, i caporali sono una presenza quotidiana per almeno il 64% degli immigrati che lavorano nei campi. Come nel racconto di Ahmed, un 43enne marocchino, ai Medici per i diritti umani: «Negli anni mi è capitato di lavorare per caporali italiani e bulgari. Ci trattenevano dai 5 ai 10 euro di paga al giorno. Prima i caporali erano molto più violenti con i lavoratori. Dopo la rivolta di Rosarno le cose sono cambiat
e. Oggi a Rosarno ci sono tre grossi caporali che gestiscono decine di operai. Negli anni questo non è cambiato. Tutti sanno. A volte i carabinieri passano davanti a furgoni dei caporali fermi nella piazza di Rosarno con dentro i ragazzi che vanno al lavoro, ma non vengono mai fermati». Ibrahim, arrivato dalla Costa d’Avorio, riassume la sua vita da invisibile: «Sono arrivato a Rosarno nel dicembre 2013. Ho sempre lavorato senza contratto. La paga è di 22 euro al giorno perché il capo nero per il quale lavoro, che è del Burkina Faso, trattiene 3 euro per il trasporto ai campi e riaccompagnarci a casa. Per lui lavorano 60 operai di varia nazionalità. Viviamo tutti insieme – prima in 60, ora in 20 – in una casa di campagna, che lui dice di affittare per 400 euro al mese e a noi chiede 50 euro al mese. Il capo nero ci minaccia, ci obbliga a lavorare velocemente altrimenti il giorno dopo non ci fa lavorare. Non vuole nemmeno che parliamo con il padrone italiano. Una volta, per esempio, il trattore ha iniziato a fare fumo. Avevo capito qual era il problema perché mi era già capitato e ho provato a spiegare al padrone dov’era il guasto. Lui mi ha ascoltato e il trattore è tornato a funzionare. Il capo nero, però, che mi aveva visto parlare col datore di lavoro, portandomi a casa mi ha detto che per me, il giorno dopo, non ci sarebbe stato lavoro». La schiavitù è a due passi da casa. Per non vederla basta girarsi dall’altra parte.

 

Pablo Petrasso

p.petrasso@corrierecal.it

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