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Il mondo parallelo della tendopoli di Rosarno

ROSARNO Non c’è modo di comprendere a fondo la vita di migrante, se non quello di passare qualche ora nella tendopoli di San Ferdinando e nel campo container di Rosarno, in provincia di Reggio Cala…

Pubblicato il: 12/01/2016 – 16:37
Il mondo parallelo della tendopoli di Rosarno

ROSARNO Non c’è modo di comprendere a fondo la vita di migrante, se non quello di passare qualche ora nella tendopoli di San Ferdinando e nel campo container di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria.
Una dimensione parallela, un mondo separato, uno spaccato di povertà estrema, in un’area urbana economicamente depressa. Ma nonostante le difficoltà (evidenti), a colpire sono le parole di quegli uomini che, per otto ore al giorno, lavorano nei campi per 50 centesimi di euro a cassetta.
La storia dei migranti di Rosarno è nota al grande pubblico: più volte ha raggiunto la ribalta nazionale, sia come emblema dell’integrazione, sia come simbolo di sfruttamento. Più recentemente a causa delle aggressioni agli stessi migranti. Eppure, anche se si pensa di essere preparati a cosa si incontrerà una volta arrivati a destinazione, Rosarno e San Ferdinando ti segnano.
Il primo impatto con il campo container non è certo edificante: cumuli di spazzatura di ogni genere, abbandonata come in una discarica a cielo aperto, incorniciano l’accesso, ormai incustodito, ai container.
Vecchie bandiere ormai logore ricordano i giorni in cui ci si stracciava le vesti per i diritti dei migranti, mentre vecchi fornelli elettrici gracchiano dall’interno delle abitazioni, sullo sfondo di decine di biciclette che attendono di essere usate da chi deve andare nei campi a lavorare.
Non tutti gli ospiti del campo container, infatti, hanno un impiego, nonostante lungo le strade che corrono parallele ai campi di arance e mandarini di Rosarno, le piante trabocchino di agrumi.
Chi non è andato a lavoro si dedica a lavare qualche indumento e a spazzare il pavimento del container. In pochissimi hanno voglia di parlare, nessuno di questi a microfoni aperti.
Le storie sono tutte simili, tutte diverse. Chi è arrivato in Italia via mare, chi via terra, chi via cielo, tutti in cerca di un futuro migliore. A stupire è il fatto che la maggior parte di loro ritenga di averlo trovato, sebbene le condizioni di vita attuali non siano per nulla invidiabili ai nostri occhi.
Qualche chilometro più a sud, nella tendopoli di San Ferdinando, cambia tutto: quella che doveva essere una sistemazione transitoria che avrebbe dovuto trasformarsi in una collocazione più consona, più umana, si è via via convertita in un vero e proprio villaggio. Accanto alle tende della Protezione Civile, le quali ospitano tutte almeno il doppio di migranti per cui erano state pensate, sono spuntate baracche costruite in legno, lamiera e teloni di plastica. Lì sotto sono nati un piccolo mercato, un macellaio, un barbiere. La tendopoli di San Ferdinando è un villaggio dove convivono africani provenienti da almeno una decina di Paesi differenti: Senegal, Burkina Faso e Guinea i più rappresentati. Sono un migliaio, almeno, le persone ospitate nelle tende e nelle baracche.
Sarebbero tre i milioni di euro destinati al piano di costruzione di bagni, docce e nuovi alloggi. Un bando che sarebbe già stato appaltato, ma i lavori non sono mai partiti: «È tutto inspiegabile», commenta con amarezza l’ex sindaco di Rosarno Elisabetta Tripodi, mentre ci accompagna tra le tende.

Tripodi
(Elisabetta Tripodi)

In mezzo alle difficoltà di una vita di incertezze e di sfruttamento, anche da parte di “caporali” africani che pretendono un “pizzo” per il passaggio in auto fino ai luoghi di lavoro, c’è anche l’intolleranza. Già in passato alcune aggressione avevano scatenato l’ira dei migranti che avevano messo a ferro e a fuoco Rosarno. Oggi, come allora, ronde di “locali” a bordo di un’auto bianca senza targa, approfittano di chi è costretto a spostarsi fuori dalla tendopoli per usare il telefono. A colpi di spranga, si dà sfogo alla noia della provincia. A raccontare la storia sono gli stessi migranti, supportati dalle ricostruzioni degli operatori delle onlus che li assistono quotidianamente.

LA STORIA «Io sono felice». Con queste parole, Keita, 35enne guineano che ormai da anni vive in Italia, parla di sé. Anche lui ive nella tendopoli di San Ferdinando e raccoglie arance e mandarini, per 50 centesimi a cassetta. Non si vergogna del lavoro che fa, ma non vuole mostrare le sue mani, rovinate dalla fatica. Ama leggere, ama studiare la nostra lingua, conoscere la nostra cultura.
Quando non lavora e non è sopraffatto dalla stanchezza, si reca nella biblioteca di Rosarno o si rifugia nella sua tenda con un piccolo tablet malridotto, alla fioca luce di un lume da campo.

keita
(Keita)

Quella per la cultura è una vera e propria ossessione per Keita. Con enfasi e passione racconta di come sarebbe utile all’integrazione se tutti gli immigrati avessero la possibilità di apprendere l’italiano. Ma non è solo un problema di assenza di insegnanti e di volontari: «La diffidenza degli italiani – rivela – è spesso un limite perché non ci permette di interagire, di provare ad integrarci».
Eppure, nonostante le difficoltà, nonostante debba condividere una tenda di 12mq con altre cinque persone, Keita sorride: «Qui sto bene, sono felice di stare in Italia, non vorrei andare via». Gli piacerebbe però poter viaggiare, conoscere posti. «Solo viaggiando posso ampliare la mia mente, la mia conoscenza del mondo».

Alessandro Tarantino
a.tarantino@corrierecal.it

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