VIBO VALENTIA Lo hanno incastrato grazie al Dna lasciato sui guanti trovati nell’auto dei killer di Domenico Di Leo. Quelle tracce sono state comparate con i profili biologici che gli inquirenti hanno acquisito, «in modo occulto ma legittimo», da diversi soggetti vicini al clan Bonavota che potevano aver preso parte all’omicidio di Di Leo. Così, dopo 11 anni, a finire in manette per quel delitto è Francesco Fortuna, killer ed esponente di spicco della cosca di Sant’Onofrio. Il suo, però, non è un nome nuovo per gli inquirenti e per le cronache giudiziarie vibonesi.
IL LATITANTE CON LA FIGLIA DEL POLITICO Classe 1980, pluripregiudicato, Fortuna era già stato arrestato il 23 luglio del 2008: all’epoca, latitante da otto mesi perché coinvolto nell’inchiesta “Uova del drago”, fu scovato dalle Squadre mobili di Vibo e Catanzaro in una villetta a Vibo in compagnia della figlia dell’ex presidente della Provincia Ottavio Bruni, che all’epoca si dimise da sottosegretario alla Presidenza della giunta regionale (era Loiero). In quella villa, oltre a un lampeggiante in uso alla polizia, fu trovato un vero e proprio arsenale: un kalashnikov, un revolver 357, una carabina Winchester, un fucile calibro 12 semiautomatico, un fucile a pompa a canne mozze e numerose munizioni di diverso calibro. Dal 27 novembre 2010, poi, per Fortuna venne disposto l’obbligo di soggiorno nel Comune di residenza fino al 25 novembre 2014, ma per gli inquirenti era ormai chiaro da tempo il suo essere parte integrante del clan di Sant’Onofrio.
LA COSCA Guidato prima dal capobastone Vincenzo (morto nel 1998) e poi dal cognato Domenico Cugliari (detto “Micu ‘i Mela”) affiancato dai figli del vecchio boss, il clan Bonavota è secondo gli inquirenti «un agguerrito sodalizio che nel periodo oggetto di attenzione (e, come vedremo, ancora oggi), dominava e domina ancora nell’area territoriale che comprende i comuni di Sant’Onofrio, Maierato, Filogaso e, in parte, Pizzo e Stefanaconi». Il prestigio e la capacità organizzativa di cui la cosca ha goduto nel tempo, inoltre, «non sono state intaccate dalle – fisiologiche – frizioni dovute ai contrasti emersi in seno al gruppo, nell’ambito dei quali si colloca, appunto, anche l’omicidio di Di Leo Domenico». Inoltre i Bonavota, anche grazie alle alleanze con altri clan del Vibonese (il gruppo Mantella e i Piscopisani, gli Anello di Filadelfia, i Vallelunga di Serra San Bruno), ha sempre rivendicato la sua autonomia rispetto ai Mancuso.
LE DICHIARAZIONI DEL PENTITO Nel decreto di fermo a carico di Fortuna sono riportate diverse dichiarazioni di Raffaele Moscato, ex killer dei Piscopisani che sta collaborando con la Dda di Catanzaro: «Con i Bonavota, dopo la morte di Francesco Scrugli, non abbiamo fatto più nulla; del gruppo dei Bonavota fanno parte: il capo Domenico Bonavota detto “Mimmo” che ha 33-35 anni; Domenico Cugliari detto “Micu i Mela” che ha circa 55 anni; Francesco Fortuna; Basile Caparrotta, Tonino Patania, Salvatore Bonavota; Barbieri detto “Padre Pio” ma so che ha anche un altro soprannome; gli altri non li ricordo; loro prendono estorsioni sul territorio di loro competenza che e’ quello di Sant’Onofrio, la zona industriale di Maierato e Pizzo». Quindi, tra gli omissis apposti dagli inquirenti, Moscato aggiunge: «Si è sempre detto negli ambienti criminali che i Bonavota, nel Vibonese, sono quelli che hanno più legami di tutti con le altre famiglie, più dei Mancuso; hanno legami in tutta Italia e anche in Canada; delle amicizie in Canada, dove loro andavano, me lo disse Salvatore Bonavota».
L’OSSESSIONE DI NON LASCIARE TRACCE Moscato chiarisce di non avere informazioni rispetto al delitto Di Leo, se non che aveva appreso da altre persone che la vittima fosse «un sanguinario» e che avesse preso parte alla vecchia faida tra i clan di Stefanaconi e Sant’Onofrio. Di Fortuna, invece, Moscato descrive la maniacalità nel non lasciare tracce che possano ricondurre al suo profilo biologico: «Ogni volta che spegne la sigaretta se la mette in tasca e questo lo fa per non lasciare traccia di Dna; questa cosa mi viene in mente e la metto in relazione all’omicidio Di Leo in quanto è possibile che Fortuna abbia questo tipo di atteggiamento temendo che gli inquirenti abbiano il Dna di qualche fatto delittuoso cui aveva partecipato; a fare ciò l’ho visto la prima volta ad una riunione, una di quelle che noi facevamo con i Bonavota a Sant’Onofrio, in quanto Bonavota Domenico e Francesco Fortuna avevano la sorveglianza, in presenza mia di Battaglia Rosario e Francesco Scrugli, per la parte nostra, dei Bonavota in presenza di Basile Caparritta, Domenico Bonavota e Francesco Fortuna; preciso che queste riunioni venivano svolte da noi sempre in case diverse e vecchie, anche di signore o pensionati, per non destare sospetti; solitamente veniva a prenderci al Palazzetto dello sport a Vibo un tale Barbieri, cognato di Franco La Bella, detto “Padre Pio”; io già dalla prima riunione ho notato che Fortuna Francesco spegneva la sigaretta e se la metteva in tasca; ha fatto ciò ogni volta che l’ho visto io; anche la bottiglia d’acqua di plastica che sorseggiava se la portava sempre a casa; questo atteggiamento la prima volta mi ha preoccupato, mi ha fatto pensare che ci fosse qualcosa dietro, ho pensato “mo ci ammazzano”, poi Francesco Scrugli mi disse che lui faceva sempre così per non lasciare traccia del Dna. Questo è avvenuto ogni volta in mia presenza, per almeno 4 o 5 riunioni, ma non so dire da quanto tempo usasse questo accorgimento»
«È MOLTO BRAVO CON IL KALASHNIKOV» Il pentito continua il racconto spiegando di come aveva appreso delle particolari “abilità” di Fortuna con le armi: «Francesco Scrugli, un giorno mentre stava ritirando l’estorsione dell’Annunziata a Vibo, dopo avermi detto che lui era bravo con il fucile calibro 12, mi ha riferito che Francesco Fortuna è molto bravo con il kalashnikov; tutti mi dicevano che Francesco Fortuna è un sanguinario, nel senso che aveva fatto parecchi omicidi, me lo dissero in particolare Francesco Scrugli, Rosario Battaglia e Rosario Fiorillo».
Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it
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