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Il killer del clan Bonavota tradito dal Dna

CATANZARO La sua ossessione quasi maniacale nel non lasciare tracce non è bastata a Francesco Salvatore Fortuna. Il killer del clan Bonavota è stato tradito dalla prova del Dna. Il suo codice genet…

Pubblicato il: 13/01/2016 – 10:42
Il killer del clan Bonavota tradito dal Dna

CATANZARO La sua ossessione quasi maniacale nel non lasciare tracce non è bastata a Francesco Salvatore Fortuna. Il killer del clan Bonavota è stato tradito dalla prova del Dna. Il suo codice genetico è stato trovato, infatti, all’interno di alcuni guanti di lattice monouso che nel 2004 vennero trovati all’interno di un’autovettura abbandonata dai sicari dopo l’omicidio di Domenico Di Leo. Il Dna isolato già all’epoca del fatto di sangue ha trovato perfetto riscontro a seguito delle indagini eseguite dai militari del comando provinciale di Vibo Valentia e coordinate dalla Dda di Catanzaro. «Un’indagine minuziosa – ha spiegato oggi in conferenza stampa il procuratore vicario Giovanni Bombardieri – che ha permesso di fare luce su un omicidio così efferato da lasciare sul luogo del delitto 45 bossoli provenienti da più armi».
L’omicidio si inquadra in una faida che lasciò una lunga scia di sangue nel Vibonese e che si concluse il 12 luglio 2004 con la morte di Domenico Di Leo. Importanti per le indagini sono state anche le dichiarazioni di diversi pentiti. Tra questi, Raffaele Moscato, legato alla cosca dei Piscopisani, alleati dei Bonavota contro lo strapotere dei Mancuso di Limbadi. Moscato ha descritto Fortuna come un killer sanguinario, con l’ossessione di non lasciare tracce. «Più volte in mia presenza – ha dichiarato Moscato agli inquirenti – Fortuna portava via mozziconi di sigaretta o bottiglie d’acqua». Ma i guanti di lattice trovati dai carabinieri di Vibo nel 2004 lo hanno incastrato. L’omicidio nasce in seno a contrasti interni alla stessa cosca di appartenenza di Fortuna. Di Leo non era più gradito dai vertici del clan. Lo provano le parole carpite ad Antonio Bonavota, suocero dello stesso Di Leo, che rammaricandosi per la morte dell’uomo, che lasciava moglie e figli, commentava: «Se uno deve morire, ad un certo punto deve morire».

Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it

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