CATANZARO Ogni ricettario medico somiglia molto a un blocchetto di assegni e va utilizzato con cura. Basta poco per spostare l’equilibrio dei conti della sanità dalla parte degli sprechi. Basta che i controlli non siano sufficienti, tanto per fare un esempio. Il dubbio è che, in Calabria, le anomalie siano state rilevanti, almeno stando alla comunicazione girata a tutte le Asp dal direttore generale del dipartimento Salute Riccardo Fatarella. Una lettera preoccupata (e preoccupante) spedita il 30 dicembre 2015. Per «richiamare, nelle more dell’attivazione della ricetta dematerializzata, a una maggiore vigilanza in merito all’utilizzo attento del ricettario unico affidato a ciascun medico prescrittore abilitato».
LE ANOMALIE Una ricognizione della burocrazia regionale ha, infatti, evidenziato «diverse anomalie nell’utilizzo, compresa una cattiva programmazione della distribuzione, che hanno fatto sì che si realizzassero squilibri anche all’interno di una stessa Asp. Non è possibile, infatti, avere territori che hanno già esaurito la propria dotazione annuale, anche in distretti limitrofi, a fronte di altri che dispongono di esuberi». Non è difficile immaginare che l’invito perentorio a una maggiore attenzione sottenda un problema ben più grave: il “peso” dell’utilizzo allegro dei ricettari sul bilancio della sanità calabrese. Fatarella non fa mistero di aver riscontrato una «scarsa applicazione» della norma «che consente al medico la prescrizione di medicinali fino a un massimo di sei pezzi per ricetta, purché già utilizzati dal paziente da almeno sei mesi e fino al massimo di 180 giorni di terapia»
STOP AI RICETTARI NELLE CLINICHE Le anomalie riscontrate spingono la Regione a cambiare le regole. Il dipartimento, di conseguenza, decide di annullare una vecchia disposizione. D’ora in poi, «in caso di dimissione o consulenza specialistica effettuate da medici appartenenti a strutture private accreditate, non è più consentito l’uso del ricettario regionale». La prima prescrizione di farmaci «sarà suggerita a norma di legge al medico di medicina generale del paziente, ovvero al sanitario di continuità assistenziale in caso di dimissione con prescrizione farmaceutica in giornata festiva». Qualche riga più in basso la “traduzione”: «Le prestazioni da effettuarsi dopo la dimissione o la consulenza specialistica dovranno essere prescritte direttamente dal medico della struttura pubblica su ricettario regionale». Niente più prescrizioni dai medici di strutture private accreditate a contratto. Di più: dal primo gennaio 2016, i management delle Asp dovranno «provvedere al ritiro dei ricettari non utilizzati presso le strutture private accreditate». Una scelta tranchant da parte del dipartimento Salute. Cosa è successo nell’ultimo anno e perché sono state cambiate le regole?
LA DENUNCIA DEL 2006 Domande che portano a fare un paio di passi indietro. Uno è lungo dieci anni. Riletta oggi, la denuncia firmata nel 2006 dalla Fimmg (Federazione dei medici di medicina generale) sembra un vaticino facile e azzeccato. L’associazione analizzava le anomalie che accompagnavano l’avvio della nuova (all’epoca) normativa. Con il ricettario unico standardizzato, i medici erano obbligati a scrivere chiaramente il loro nome, quello del paziente, la data e il timbro. E le ricette, così compilate, finivano al ministero dell’economia. Un tentativo di razionalizzare i costi che, almeno in Calabria, mostrava molte pecche. I medici di base avevano raccolto all’epoca un’ampia documentazione, della quale facevano parte decine di ricette di medici ospedalieri che mancavano degli elementi di riconoscimento previsti dalla legge. Una realtà ben diversa rispetto alla «massima cura» richiesta fin da subito dall’assessorato alla Salute nelle prescrizioni.
ASSEGNI IN BIANCO? Alla Procura di Catanzaro, però, sono stati recapitati altri esposti. Tutti vanno nella stessa direzione. E cioè denunciano che, mentre i medici di base avrebbero rispettato le prescrizioni di legge (anche perché sulle loro ricette interviene un controllo trimestrale), altri possessori dei ricettari rossi non avrebbero fatto altrettanto. In alcuni casi, i medici hanno segnalato prescrizioni “sospette” consigliate da alcuni specialisti in servizio nelle case di cura a pazienti che ne avrebbero chiesto la trasposizione sul ricettario al medico generico. Circostanze “sospette”, nelle quali, sorge il dubbio che si volesse nascondere un esame forse non indispensabile e molto costoso nel flusso delle centinaia di prestazioni richieste quotidianamente dai medici di base. Sospetti, appunto, che cercano conferme. Figuriamoci, poi, cosa sarebbe potuto accadere se qualcuno avesse utilizzato i ricettari rossi per prescrivere esami mai effettuati. Senza controllo, quei blocchetti si trasformano in una rischiosissima collezione di assegni in bianco.
Pablo Petrasso
p.petrasso@corrierecal.it
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