REGGIO CALABRIA Fatta eccezione per Francesco Votano, scarcerato per ordine del Tribunale delle Libertà, rimangono tutti dietro le sbarre i sodali di Giovanni De Stefano, reggente dell’omonimo clan, arrestato a fine dicembre nel corso dell’operazione “Il Principe”. Mentre si attende la decisione del competente Tdl per Vincenzo Morabito, il Riesame reggino ha detto no alla scarcerazione di Fabio Salvatore Arecchi e Arturo Assumma, mentre si indeboliscono le accuse nei confronti di Francesco Votano, nonostante sia stata depositata agli atti del procedimento una sua missiva, rinvenuta durante la perquisizione a casa del “principe” De Stefano, in cui l’uomo assicura al reggente la sua totale fedeltà. Una decisione controversa che bisognerà attendere le motivazioni per comprendere, ma che non sembra convincere la Procura che aveva chiesto per tutti la conferma della misura cautelare.
Per gli inquirenti, infatti, sono tutti relazionati alla nuova strategia criminale che il clan di Archi ha affidato al “principe” Giovanni, in una delle fasi più delicate della storia criminale della famiglia di don Paolino. Mentre i massimi vertici del clan sono costretti in carcere da pesanti condanne, tocca al reggente mantenere alto il nome e il prestigio dei De Stefano nelle strade come nei circoli che contano. Per questo, abbandonata la diplomazia criminale del passato anche su consiglio del proconsole del cugino Giuseppe, Vincenzio Zappia, Giovanni De Stefano inaugura una stagione di politiche criminali sempre più aggressive. Non si potrebbe definire altrimenti l’estorsione cui è stata sottoposta la ditta Cobar, assegnataria del ricco appalto per il restauro del Museo della Magna Grecia, fin dal suo arrivo a Reggio Calabria. I primi camion – ha svelato l’inchiesta – sono stati braccati non appena hanno disceso la rampa che porta in città.
Da allora, per ordine del “principe” De Stefano, nella casa dei Bronzi, gli arcoti non solo hanno stabilito quali maestranze reggine dovessero lavorare, ma anche dove dovessero dormire gli operai che la ditta aveva portato con sé da fuori. «Questa ditta esterna – spiega in modo dettagliato Enrico De Rosa, il collaboratore che con le sue rivelazioni ha dato conferma alle risultanze delle indagini – era di Matera, io vengo messo a conoscenza da Sonsogno che avevano pilotato alcune assunzioni, che avevano dirottato nell’albergo di loro interesse che era l’Hotel Lido, gli impiegati che da Matera, giustamente, essendo una ditta di fuori, avevano necessità degli alloggi». Ma i De Stefano decidevano anche come dovesse essere gestito il cantiere. È infatti per decisione del “principe” che la Cobar ha iniziato a stoccare i reperti nel magazzino di Carmelo Ficara. “Consigli” pagati a caro prezzo dalla ditta, obbligata a versare oltre 200mila euro in varie tranche: la prima, di 15-20mila euro, consegnata dal geometra Trezza a Mico Sonsogno durante un pranzo al ristorante Re Ruggero, gestito da uno dei fermati, Vincenzo Morabito, una seconda di 50mila euro nei pressi dell’hotel Excelsior, 15mila passata di mano da Trezza a Sonsogno al Centro Sportivo Pellicanò, meglio conosciuto come campetto dell’Hinterreggio, nascosta dentro l’involucro di una risma di fogli A4, una terza invece ritirata da De Rosa dalle mani di un altro indagato, Arturo Assumma, su incarico di Sonsogno, cui subito dopo il ritiro li ha consegnati. Un prelievo continuo che la ditta non ha mai ammesso, ma in cui pressoché tutti gli indagati erano a vario titolo coinvolti.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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