LAMEZIA TERME L’operazione della Dia messa in campo venerdì – la confisca di beni per il valore di sette milioni di euro all’imprenditore lametino Francesco Cianflone, considerato vicino alla cosca Giampà – è avvenuta in un momento particolare per la città di Lamezia Terme. In meno di dieci giorni, dal 24 gennaio al 2 febbraio, si sono verificati otto atti intimidatori. Le esplosioni che scuotono la città di notte, i commercianti che trovano biglietti minatori corredati da proiettili davanti alla porta del proprio negozio, non sono episodi che le recenti operazioni antimafia sono riuscite ad archiviare. Da parte degli inquirenti, al momento, c’è riserbo sulla natura di queste intimidazioni. Ma una riflessione sulla particolare natura del territorio lametino è stata espressa dal procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, Giovanni Bombardieri. «È un territorio che è particolare – ha spiegato nel corso della conferenza stampa sulla confisca della Dia – perché, accanto a una serie di operazioni di polizia giudiziaria che si sono susseguite e anche di condanne che si sono ottenute per quanto riguarda le organizzazioni criminali lametine, grazie anche a un certo numero di collaboratori che ci ha consentito di ricostruire dall’interno le dinamiche criminali, purtroppo abbiamo assistito in alcuni casi, anche in sede dibattimentale, a una serie di imprenditori che hanno modificato le dichiarazioni precedentemente rese». Il procuratore si riferisce alle testimonianze di alcuni imprenditori che nel corso del processo “Perso”, contro la cosca Giampà e i suoi affiliati, si sono mostrati reticenti nel confermare quanto dichiarato agli inquirenti in fase di indagine. Quattro di loro, ora, rischiano il processo per falsa testimonianza. «Noi – aggiunge Bombardieri – riteniamo che sia dovere della parte sana della società civile, delle imprese, delle aziende sane che intendono lavorare in maniera leale, affermare il loro diritto esponendosi con denunce». Un invito al coraggio quello del magistrato, il coraggio di sostenere le proprie dichiarazioni da parte degli imprenditori che «possono anche apparire pericolose per loro ma che debbano consentirci di lavorare. Non si può chiedere alle istituzioni, alla magistratura, alle forze dell’ordine di intervenire e poi tirarsi indietro nel momento decisivo della loro collaborazione». E purtroppo a Lamezia Terme si può assistere anche a questo: imprenditori che nel corso delle udienze «hanno modificato, quasi ritrattando, le dichiarazioni di accusa che avevano reso precedentemente. E questa è una cosa che deve far meditare», ha concluso l’aggiunto.
IMPRENDITORI DI RIFERIMENTO E BENI CONFISCATI D’altronde l’operazione “Piana”, condotta a maggio 2013, da cui scaturisce il provvedimento della Dia, ha messo in luce come la cosca Giampà avesse degli imprenditori di riferimento. Imprenditori che, motu proprio, avevano deciso di passare al lato oscuro dell’economia locale «asservendo le ditte e le aziende di cui sono titolari agli interessi e alle esigenze dell’associazione, legati a quest’ultima da un illecito accordo a prestazioni corrispettive per effetto del quale ottengono, grazie alla intermediazione mafiosa e in violazione delle regole del libero mercato, l’acquisizione di appalti e commesse, ricevendo in cambio ingenti profitti e guadagni». «Addirittura, esponenti della cosca – ha affermato il capocentro della Dia di Catanzaro, Antonio Turi – erano soliti fornire alle ditte che vincevano appalti, i biglietti da visita degli imprenditori di riferimento, e quindi anche del Cianflone nel periodo storico in cui era sotto l’ala protettrice del clan». In un passaggio del provvedimento di sequestro si riportano le dichiarazioni di Giuseppe Giampà, ex reggente della cosca e oggi collaboratore, che afferma: «Quelle ditte che facevano a noi riferimento, non solo venivano da noi indicate agli imprenditori che prendevano i lavori ma talvolta facevano da tramite tra gli imprenditori e noi. Ciò in quanto era assolutamente noto il rapporto che li legava a noi». Un dato ormai comune e acquisito dalla popolazione che la cosca avesse i suoi imprenditori. «Negli ultimi cinque anni a Lamezia sono stati confiscati circa 80 milioni di euro di beni e sequestrati 16 milioni di euro», specifica il capocentro Antonio Turi. Ma liberare l’economia della Piana sembra impresa ancora ardua se la Piana non impara a liberarsi da sola.
ale. tru.
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