REGGIO CALABRIA «Potevamo arrestarli tutti, mafiosi e pezzi infedeli dello Stato, ma qualcuno in alto, si è tirato indietro sul più bello». La denuncia più forte è tutta contenuta in quella sentenza lapidaria dell’autore, il generale in pensione Angiolo Pellegrini, riportata sul retro del libro edito da Sperling&Kupfer: “Noi, gli uomini di Falcone. La guerra che ci impedirono di vincere”. Il volume con la prefazione del giornalista Attilio Bolzoni è stato presentato a palazzo Alvaro, sede della Provincia di Reggio Calabria alla presenza del presidente dell’ente Giuseppe Raffa e del vicesindaco della città dello Stretto Saverio Anghelone. Ha moderato l’incontro l’assessore provinciale alla Cultura Edoardo Lamberti Castronuovo: «Questo libro fa una vera e propria disamina degli anni bui in cui si trovò a lavorare il pool antimafia e ha il pregio di essere stato scritto dall’interno». L’allora capitano Pellegrini fu uno dei più stretti e diretti collaboratori di Giovanni Falcone. Fu quello che accompagnò, standogli seduto accanto, Tommaso Buscetta in Italia. Non una relazione tecnica ma un romanzo appassionato scritto di getto per mettere nero su bianco le complesse vicende rimaste per tanto tempo sopite o, quanto meno, prive di un punto di vista ulteriore e altamente qualificato, quello di chi ha lavorato dall’interno. Il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo ha riportato in chiave locale gli studi del generale. Nulla è cambiato a livello sistemico per il magistrato: «A distanza di trent’anni ancora siamo in presenza di un sistema che si inceppa». Lo scenario di contrasto alle mafie è sempre troppo lento «e questo non è assolutamente accettabile». E poi l’importanza del nuovo modo di affrontare le mafie che fu introdotto da Falcone e dagli uomini che decisero di collaborare con lui: comprendere prima di operare. Quel nuovo approccio oggi così naturale allora fu osteggiato da chi ancora diceva che «a Catania la mafia non esiste» o distribuiva i fascicoli processuali ai giudici semplicemente in ordine cronologico. Infine le considerazioni dell’autore con una premessa: «Reggio è una città che sento come seconda patria per aver trascorso qui 12 anni della mia vita. Qui ho imparato soprattutto il modo di combattere la mafia e ho portato questa esperienza tra Reggio e Palermo». Quali i principali fattori di successo? La scelta del personale per costruire una squadra coesa. Per questo si occupò personalmente di selezionare il personale col quale operare dentro e fuori Palermo nel massimo rispetto della legge e con qualche forzatura di protocolli e burocrazia. E i risultati si sono visti. «Gestivo questa sezione in modo un po’ particolare e la squadra aveva la possibilità di muoversi senza richiedere le prescritte autorizzazioni che spesso e volentieri bloccavano l’azione inquirente». L’ufficio istruzione della Procura divenne il motore delle indagini antimafia dove si stava strutturando il pool voluto da Falcone: un gruppo di magistrati che si occupava esclusivamente di criminalità organizzata. Allo stesso modo iniziarono ad organizzarsi i Carabinieri e la Polizia con le sezioni investigative.
«Da lì partì l’impresa di scrivere un rapporto unitario con il commissario Ninni Cassarà su quello che stava succedendo a Palermo. E dopo 42 notti di lavoro portammo questo rapporto in procura che divenne la base del maxiprocesso».
Redazione Rc
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