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Strage di San Lorenzo, la difesa: lacune nelle indagini

SAN LORENZO DEL VALLO Vi è un unico dato che coincide in tutti i verbali resi da Silas De Marco. È un epiteto, una bestemmia che uno dei killer della strage di San Lorenzo del Vallo sputa, in diale…

Pubblicato il: 11/02/2016 – 20:36
Strage di San Lorenzo, la difesa: lacune nelle indagini

SAN LORENZO DEL VALLO Vi è un unico dato che coincide in tutti i verbali resi da Silas De Marco. È un epiteto, una bestemmia che uno dei killer della strage di San Lorenzo del Vallo sputa, in dialetto roggianese, prima di aprire il fuoco contro la famiglia De Marco nel soggiorno della loro stessa casa: ‘nculu a chi t’è muartu. Ma i due imputati di una delle stragi più efferate che la Calabria annoveri, Domenico Scarola e Salvatore Francesco Scorza, non sono di Roggiano. “Sapete chi è di Roggiano? Franco Presta”. Non indugia neanche un secondo l’avvocato Luca Acciardi nell’arrivare dritto al centro della sua arringa. Perché c’è un nome che domina, inamovibile, sulla morte di Rosellina Indrieri e di sua figlia Barbara: Franco Presta, boss stanato dalla sua latitanza nella primavera del 2012.
Ma non è lui l’imputato, e nemmeno l’indagato, per gli omicidi che il 16 febbraio 2011 scossero il piccolo paesino di San Lorenzo e tutta la regione. A beccarsi un ergastolo, in primo grado, sono stati Domenico Scarola e Salvatore Francesco Scorza, detto Vincenzo.

LA VENDETTA Ora, davanti alla corte d’Assise d’appello di Catanzaro, si sta celebrando l’appello su quella sentenza. Una sentenza che parla di “violenza privata”, commessa dai due autori con un unico scopo: vendicare la morte di Domenico Presta, figlio del boss Franco Presta, avvenuta il 17 gennaio 2011 per mano di Aldo De Marco, zio di Silas e Barbara e fratello di Gaetano De Marco, risparmiato alla strage del 16 febbraio e colpito a morte il 7 aprile successivo. Aldo De Marco, arrivato ai ferri corti col giovane Presta per questioni private, si costituisce subito dopo il delitto. Ma la morte del rampollo della cosca, sostengono l’accusa e la difesa, andava lavata col sangue. Quello che diverge nelle due tesi è chi ha mandato, chi ha compiuto materialmente il gesto.
Secondo la corte d’Assise di Cosenza sono stati Scorza e Scarola: “Domenico Scarola, è scritto nella sentenza, è uno dei migliori amici di Domenico Presta, un fiancheggiatore della latitanza di Franco Presta e un assiduo sostenitore dei bisogni della famiglia Presta; Vincenzo Scorza è inscindibilmente legato alla famiglia Presta dal vincolo sacrale sancito dal di lui padre Costantino”. Ma secondo l’avvocato Acciardi “un vincolo sacrale” non è una motivazione accettabile per una sentenza di ergastolo. Servono prove concrete che suggellino le parole del super teste: l’unico testimone della strage, miracolosamente sopravvissuto nonostante i colpi ricevuti. Silas De Marco ha tenuto i nomi per sé fino alla cattura di Franco Presta.
Poi, ricostruisce l’avvocato nella sua arringa difensiva, telefona a una zia che sta in Germania, Dorina, e si confida: “Sono stati Franco Presta e il compare”. Dorina non andrà mai a deporre in giudizio, mai si presenterà in tribunale. E non sarà l’unica. “San Lorenzo del Vallo è un intero paese che ha paura – sostiene Acciardi – ma non hanno paura di Scorza e di Scarola”. Sarà Maria De Marco, sorella di Dorina, a presentarsi in tribunale e a raccontare che “u compare” è Costantino Scorza, padre di Vincenzo.

LE INDAGINI MALDESTRE Eppure, sostiene l’avvocato, mancano sempre le prove concrete, quelle che solo le indagini possono fornire. Acciardi si scaglia contro la qualità e la conduzione della indagini. Sul fatto che i rilievi balistici non vennero fatti sul posto, che la scena del crimine venne inquinata dalla presenza di troppe persone e di troppe manovre maldestre, come quella di asciugare del sangue con lo scottex o di non prelevare mai campioni ematici per le prove del Dna.
Dopo l’omicidio la città venne blindata, oltre 8000 utenze telefoniche vennero attenzionate, tranne quelle di Silas e della sua fidanzata, e comunque le altre intercettazioni diedero esito negativo. “Dalle accuse viene tolta l’aggravante mafiosa perché non era più funzionale alle accuse”, continua Acciardi. In dibattimento sparisce l’unica frase comune a tutti i verbali. Quell’insulto in dialetto roggianese, ripetuto più volte, in tribunale viene coperto da “non ricordo… avevo paura”.
“Troppe parole e pochi fatti”, conclude l’avvocato Acciardi che afferma: “Un giovane può patire molto in nome del padre ma in nome del padre vi chiedo di assolvere Vincenzo Scorza”.

Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it

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