Maria Grazia Laganà non ha più né una scorta né una tutela da parte dello Stato. O, meglio, può averla se esce di casa per fare la spesa o per salire in ospedale dove è il suo luogo di lavoro, ma decidesse di continuare nella sua esperienza politica dovrà farlo a suo rischio e pericolo, soprattutto se esce dai confini della provincia in cui risiede. È quanto ha stabilito il ministero dell’Interno su conforme parere del prefetto di Reggio Calabria.
L’onorevole Laganà–Fortugno, dunque, pur nella sua veste di ex parlamentare, componente della Commissione antimafia, vedova del vicepresidente del consiglio regionale Franco Fortugno, – ucciso in un seggio elettorale dove si celebravano le primarie del Pd, delitto che l’allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha definito “politico-mafioso” paragonandolo a quello di Aldo Moro – non corre alcun rischio. La sua incolumità è garantita. Poco importa se, proprio in questi giorni, si celebra la fase conclusiva dei processi contro chi mise bombe che dovevano uccidere lei o uno dei suoi cognati (ordigni collocati negli ospedali di Locri e Siderno).
Poco importa se nessuna delle indagini, tese a scoprire gli autori delle lettere di minacce spedite a dozzine alla Laganà per imporle il silenzio, ha avuto successo.
Poco importa se è ancora nella sua pienezza operativa l’attività di parte civile che l’onorevole Laganà mantiene anche dopo la condanna, con sentenza definitiva, degli autori materiali dell’omicidio del marito.
Poco importa se la stessa onorevole Laganà non fa mistero alcuno della sua ferma determinazione a ottenere che si faccia luce anche sui livelli più alti che stanno dietro quel “delitto politico-mafioso”.
Poco importa se proprio in questi giorni è definitivamente, e miseramente, fallito il tentativo di delegittimarne l’azione indicandola come rea di avere usato il suo ruolo di direttore sanitario dell’ospedale di Locri per acquisti illegittimi di presidi sanitari.
Poco importa se la sua definitiva assoluzione perché «il fatto non sussiste» ha rimandato a casa il tentativo di “mascariarne” l’attività politica e la credibilità, aumentandone così l’esposizione.
Per il ministro Angelino Alfano e per la Prefettura di Reggio Calabria tutto questo vale zero, la scorta a Maria Grazia Laganà non serve.
Serve invece all’ex sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti. Blindato anche nelle sue trasferte romane ed extra-romane per lanciare il nuovo soggetto politico nel quale è impegnato.
Per carità, se Scopelliti ha bisogno di essere tutelato, lo si faccia senza esitazioni. Se le ragioni per cui tale tutela va mantenuta persistono, la si mantenga senza neanche dire in cosa risieda la sua esposizione.
Tuttavia sul piano politico, e ancor prima su quello del buonsenso, una differenza dovrebbe pur esserci tra chi, come Mara Grazia Laganà, ricevendo un discutibilissimo avviso di garanzia si sospende dal Pd, rinuncia alla ricandidatura che le spettava di diritto e si difende in Tribunale senza mai profferire giudizio su chi l’accusa e poi ne esce, dopo avere rinunciato persino alla prescrizione, immacolata e con tante scuse. E chi, invece, esce di scena perché una legge lo impone dopo la sua condanna a sei anni di reclusione e resta interessato a diverse altre inchieste, l’ultima delle quali accusa Scopelliti di avere trescato, finanziandola, anche con l’antimafia di parata, quella che doveva sviare dibattiti e attenzioni ed accumulare prebende e benefit.
Spiegare questo, però, sarebbe assai difficile al Pd calabrese affetto da una forma imperdonabile e pericolosa di antropofagia politica. Il segretario regionale Ernesto Magorno è troppo impegnato a costruire il “partito della nazione” per seguire queste cose. Non parliamo del governatore Mario Oliverio, che nel dubbio se andare per una sfilata alla borsa del turismo a Milano o presentarsi al summit per la sicurezza convocato a Reggio Calabria dal ministro dell’Interno non ha esitazione alcuna… e vola a Milano.
Così Angelino Alfano potrà impunemente dire che sarà pure vero che la ‘ndrangheta spara troppo, aggredisce imprenditori, amministratori locali e giornalisti a Reggio, nella Locride, a Lamezia e a Catanzaro ma occorre essere felici di tutto ciò perché è segno della sua debolezza.
E nessuno che, a tutela della dignità dei calabresi, gli replichi: «Scusi signor ministro, se tutto questo è segno di debolezza della ‘ndrangheta, allora se la ‘ndrangheta fosse forte cosa ci farebbe?».
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