REGGIO CALABRIA Finirà di scontare la pena collaborando con i servizi sociali l’ex giudice Vincenzo Giglio, condannato in via definitiva a 4 anni e 5 mesi per i rapporti fin troppo stretti con capi e gregari del clan Lampada a Milano. Il Tribunale di sorveglianza ha accolto l’istanza del legale di Giglio, l’avvocato Francesco Albanese, concedendo all’ex giudice di finire di scontare la pena lavorando presso la cooperativa Nazareno di Gallico, l’azienda agricola Nesci e la parrocchia di don Valerio Chiovaro.
Giglio era finito in manette il 30 novembre 2011, insieme all’ex consigliere regionale Franco Morelli, all’avvocato Vincenzo Minasi e all’omonimo cugino del magistrato, Vincenzo Giglio e a diversi uomini del clan Lampada. A fare da trait d’union tra tutti – hanno svelato le indagini – era la famiglia Lampada, emigrata a Milano molti anni fa per far fruttare lontano dalla Calabria – dove forse avrebbe dato troppo nell’occhio – il “tesoro” di Pasquale Condello, “il Supremo” arrestato dal Ros dei Carabinieri il 18 febbraio 2008. E il cui patrimonio – dicevano gli investigatori delle Dda di Reggio Calabria e Milano e hanno confermato diverse sentenze – è servito da pietra angolare per la costruzione dell’impero economico dei Valle-Lampada al Nord Italia. Un impero dai molti e insospettabili sudditi. Come l’ex consigliere regionale Franco Morelli e l’ex giudice Giglio, definiti dal gip Gennari «uomini ridotti alla condizione di ricattabilità e subalternità». Uomini i cui servigi vengono lautamente ricompensati con contanti, prebende, viaggi, soggiorni e favori che il clan elargiva in cambio di informazioni riservate, consulenze e coperture. Per il giudice Giglio, anche la promessa di un posto di lavoro per la moglie, Alessandra Sarlo, aspirante commissario della Asp di Vibo Valentia. È bastato poco – diceva la Procura milanese e ha affermato poi afferma la Cassazione – perché l’ex assessore regionale Morelli e l’ex presidente della Corte d’Assise Giglio, si mettessero tutti al servizio della cosca Valle-Lampada, clan radicati al Nord, ma nati e cresciuti ad Archi, periferia nord di Reggio Calabria e feudo storico del potente clan dei De Stefano-Condello. Ma i clan non fanno nulla per mera generosità.
In cambio di cosa i Lampada si sono dati tanto da fare per coinvolgere nei propri affari personaggi noti della politica e della società calabrese? I pm prima e le sentenze oggi danno una risposta inequivocabile: in cambio di entrature, notizie su indagini, interessamenti di vario tipo su procedimenti pendenti. Dalle carte del procedimento, uscito indenne da tre gradi di giudizio, emerge non solo una sconcertate familiarità di quelli che all’epoca erano insospettabili professionisti con i più alti papaveri della ndrangheta milanese, ma anche l’estrema familiarità con cui si muovevano in ambienti istituzionali, politici, investigativi e para-investigativi. Quella dei Lampada – per usare le parole del gip Gennari che tre gradi di giudizio non hanno fatto che confermare – un «vera e propria ragnatela di relazioni inestricabili e connesse in cui tutti prendono e danno qualcosa». Una rete di interessi incrociati, favori, prebende e benemerenze che imbrigliava uomini dall’estrazione più diversa, in Calabria come in Emilia Romagna e in Lombardia. Eterogenei per professione, provenienza e aspirazione ma accomunati da una medesima caratteristica: il potere.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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