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Francesca Prestia canta “Fuja” in carcere

CATANZARO Poi Francesca si ferma. “Fuja”, una canzone ispirata da un racconto di Corrado Alvaro, ha elettrizzato la grande sala tinteggiata di bianco e fredda. Un vorticoso succedersi di gesti e sc…

Pubblicato il: 02/03/2016 – 11:53
Francesca Prestia canta “Fuja” in carcere

CATANZARO Poi Francesca si ferma. “Fuja”, una canzone ispirata da un racconto di Corrado Alvaro, ha elettrizzato la grande sala tinteggiata di bianco e fredda. Un vorticoso succedersi di gesti e scoppi d’ira sospinto da una tarantella forsennata, preludio di un “femminicidio” ante litteram di quando la civiltà era profumi intensi d’uve pigiate e contadina. E le donne senza più “onore” incappavano nel coltello. Ride, bella e bionda, con la chitarra battente tra le mani. Sola, Francesca Prestia, sul palco, guarda il pubblico per alcuni lunghi istanti di silenzio. “Fuja, fuja”, a ritmo incalzante, qui ha uno sconquasso imponderabile. Come tornata improvvisamente in sé, divincolata dal sacro fuoco della musica, si rende conto che stavolta è diverso. È schietta di carattere la cantastorie popolare diplomata in flauto traverso e laureata in Dams, figlia e nipote di gente d’arte, maestra di sostegno nella periferia del lumpenproletariat catanzarese. È un’artista di successo, ha girato lo Stivale cantando la “sua” idea di Calabria che può apparire esorbitante, ma non lascia indifferenti (“Si nui simu briganti, vui chi siti?”). In testa un tumulto di cose da farsi. E ne parla, tra un’esecuzione e l’altra, disinvolta e diretta; convinta che la canzone (“Cantu e cuntu…”) sia accusa sferzante nei confronti di chi devasta l’ambiente (“Sì ccà fussa Giuvanna iddha cantera”), denuncia aperta contro la mafia (“La ballata di Lea”: Lea Garofalo, la testimone di giustizia assassinata), pungolo per la maggioranza silenziosa. Dal Rendano agli Stati Uniti, a Macerata ha cantato in calabro-greco assieme a Vecchioni, successo dopo successo “a cantastorij” ha imparato le variazioni d’umore d’ogni pubblico e maturato la perizia per addomesticarlo, carezzarlo, esaltarlo se del caso. Ma stavolta il suo pubblico è sui generis. Sono carcerati che ascoltano e applaudono, storie di errori e misfatti, umanità dolente dietro le sbarre. Davanti ai suoi occhi luccicanti, ci sono un centinaio di detenuti di media e alta sicurezza del penitenziario “Ugo Caridi” di Siano a Catanzaro che ospita settecento persone perlopiù meridionali e la cui governance è nelle mani di una direttrice lungimirante: Angela Paravati. C’è di tutto e di più: quando sono entrati nel teatro del carcere, a gruppi e accompagnati dagli agenti di polizia penitenziaria, i detenuti hanno preso posto in silenzio e secondo il grado di pena e pericolosità. Un gruppo di loro ha arricchito la serata con riflessioni individuali sul rispetto della donna («sempre e comunque») e sulla funzione della pena. La pena che l’articolo 27 della Costituzione vorrebbe non coincidesse «con trattamenti contrari al senso d’umanità» e tendesse invece «alla rieducazione del condannato». Non una vendetta, e né un luogo (il carcere) dove la società scarica le sue stridenti contraddizioni. Sono gli allievi del pedagogista Nicola Siciliani de Cumis che a Siano e a Regina Coeli tiene corsi di lettura e scrittura: «È necessario che se ne discuta: il carcere non può restare fuori dagli interessi dell’opinione pubblica. Non può essere considerato un luogo di rivalsa della società civile nei confronti del reo, il luogo delle vendette pubbliche e private da esercitare ampliando gli effetti della detenzione mediante sofferenze psichiche e fisiche dei carcerati». L’idea di respingere scenari infernali danteschi, distruttivi d’ogni dimensione umana e incapaci di produrre nella vita dei condannati un cambiamento, muove le molteplici iniziative della direttrice del carcere. In questo universo segregato, “a cantastorij” ha accettato di esibirsi, accogliendo l’invito della direzione del carcere che ha condiviso la traccia dello spettacolo: “Storie in musica, per conoscere, riflettere, scegliere”. Ha appena concluso “Fuja”, gli applausi sono cessati, avverte l’emozione che ha sprigionato la sua musica, chissà se nella mente dei detenuti, specie tra gli ergastolani, “Fuja” ha instillato il desiderio di uscire dal penitenziario, muovere le gambe e di corsa tornare alle case che hanno lasciato. Ma Francesca li passa in rassegna, quasi uno per uno. Riscopre il suo mestiere nella vita d’ogni giorno. «Sapete – dicen – io faccio la maestra». E, calma e gesso, aggiunge: «Ai mei allievi ho detto che sarei venuta a cantare nel carcere e domani mi chiederanno com’è andata. Ditemi voi cosa debbo rispondere…». Convulsione di pensieri e atmosfera da ictus collettivo. Poi, una voce dal fondo della sala: «Rispondi che hai incontrato delle brave persone. Prima no, ma adesso sì. Siamo brave persone…».

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