COSENZA Ha ricostruito i mesi prima della tragedia. Giovanna Leonetti, la biologa 37enne, accusata di aver ucciso con un cuscino la bimba di appena sette mesi, lunedì pomeriggio è stata interrogata dal pubblico ministero Domenico Frascino nel reparto di Psichiatria dell’ospedale “Annunziata”, dove è ricoverata dallo scorso 20 febbraio, giorno della tragedia, e sottoposta agli arresti domiciliari. La donna ha risposto a tutte le domande del pubblico ministero, accompagnato da due sottufficiali donne dei carabinieri. La mamma della piccola Marianna Luberto soffre di depressione post parto dallo scorso mese di ottobre. La giovane donna ha ricostruito, infatti, tutti i mesi – da ottobre a febbraio – in cui è stata in cura da diversi specialisti. Ha parlato della sua patologia, dei malesseri e delle cure che faceva. Sul giorno della tragedia il suo racconto è «stato un po’ fumoso», ha detto l’avvocato Marcello Manna, suo legale assieme al collega Pierluigi Pugliese. Di quel giorno, Giovanna Leonetti ha ricordato meglio il momento in cui si trovava al primo piano della palazzina in cui abita nel centro di Cosenza: poco prima della tragedia la 37enne si è fermata al primo piano dello stabile dove risiede la mamma e lì hanno giocato con la bimba in presenza pure della badante della nonna della piccola Marianna.
La biologa ha comunque chiarito tutti gli aspetti che la Procura (le indagini sono coordinate dal procuratore aggiunto Marisa Manzini) voleva approfondire in merito al giorno della tragedia e anche al percorso terapeutico della donna. I legali di Leonetti sono in attesa di conoscere gli esiti delle cure che la giovane sta seguendo nel reparto di Psichiatria. La Procura, intanto, nei giorni scorsi ha presentato appello al Tribunale del Riesame per chiedere la misura cautelare in carcere per la donna considerato che «potrebbe fuggire e commettere gesti autolesivi». Per gli inquirenti, «non si può ritenere tranquillizzante la somministrazione di un’adeguata terapia mirata» perché quando ha compiuto il grave gesto era in «cura da diverso tempo, anche farmacologica». Ecco perché «l’unica misura davvero adeguata – è scritto nell’appello della Procura – in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari che il gip ha ravvisato, è la misura cautelare in carcere». Per i magistrati è possibile applicare tale misura perché allo stato le condizioni della donna non risultano incompatibili con il regime carcerario. Anche perché esistono – mettono nero su bianco gli inquirenti – penitenziari con strutture psichiatriche idonee alla somministrazione di cure specifiche.
Mirella Molinaro
m.molinaro@corrierecal.it
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