COSENZA La Calabria e il Brasile, due mondi lontani, ma non così dissimili. Sono quelli di “Pacunaímba – L’avventuroso viaggio di Santo Emanuele”, ultima fatica letteraria venuta fuori dalla penna di Michele D’Ignazio, autore cosentino, già al terzo romanzo per Rizzoli. Santo Emanuele è l’aiutante del sindaco di Lancastre, un tipo eccentrico e truffaldino. Per essere rieletto, il primo cittadino ha bisogno del voto di un lontano parente di Santo Emanuele disperso da anni in Sud America. Il protagonista parte così per un rocambolesco viaggio, tra la natura selvaggia e le baracche di lamiera delle favelas, che gli farà scoprire una realtà molto diversa da quella alla quale è abituato a vivere. A parlarcene è proprio Michele D’Ignazio, in anteprima per il Corriere della Calabria, alla vigilia dell’uscita in libreria di “Pacunaímba”, prevista per il 10 marzo.
D’Ignazio, nel 2012 usciva il suo primo romanzo edito da Rizzoli, “Storia di una matita”, due anni dopo il suo seguito “Storia di una matita. A scuola”. Ci dica cosa è avvenuto tra questi due lavori e “Pacunaímba”. Dalla descrizione minuziosa dei paesaggi e delle piante quest’ultimo sembra essere piuttosto il frutto di un viaggio in Brasile che della sola immaginazione…
«Sì, in effetti il viaggio c’è stato. Risale a quattro anni fa, andai a trovare degli amici e rimasi lì per circa due mesi. Il Sud America mi ha folgorato, per la varietà di culture, l’energia, la gente. Per loro, presente e futuro sono la stessa cosa. Ho scritto “Pacunaímba” tra la permanenza in Brasile e il ritorno in Italia. Com’è noto, però, i tempi editoriali sono molto più lunghi rispetto alla stesura del racconto, il quale ha avuto, tra l’altro, uno sviluppo che io definirei “a fisarmonica”: è stato allungato e accorciato più volte prima di diventare un reportage e assumere, poi, la forma di un romanzo. In realtà, ammetto di aver avuto anche uno spunto precedente al Brasile: un mio amico calabrese che vive da tempo all’estero mi raccontò di essere stato contattato da un politico del suo paese, che gli chiese di rientrare per votarlo in vista delle elezioni. Ecco pronto l’inizio della mia storia: la conta dei voti di Arrabál».
Il Sud Italia, quello dal quale proviene ed in cui immaginiamo si trovi Lancastre, e il Sud del mondo, il Brasile. In cosa differiscono ed in cosa, invece, si assomigliano?
«Senza voler generalizzare troppo, credo che la differenza più evidente sia il forte senso di fratellanza che accomuna il popolo brasiliano, e che da noi, probabilmente, si avverte meno. Di similitudini ce ne sono tante: prima fra tutte, la magia dei paesaggi, della luce (nel libro ritorna spesso il tema della “luce a cavallo”), in particolare quella che anticipa il tramonto, ideale per le riprese (un aspetto per me rilevante dal momento che un’altra delle mie passioni è quella di realizzare documentari). E poi, la storia, le nostre radici ispano-portoghesi comuni, i sogni, quelli dei nostri avi emigrati in cerca di fortuna. A questo proposito, mi viene in mente un aneddoto: durante un incontro a Badolato mentre portavo in giro “Storia di una matita”, mi venne regalata una rivista culturale, con all’interno alcuni cenni storici sul paese, e una rubrica con le foto di due badolatesi emigrati in America circa mezzo secolo prima. Pare che uno di loro viva in Argentina, ma abbia ancora la residenza a Badolato. Qualcuno mi disse, serio: “Potrebbe tornare a votare!”. Pensai che a volte la realtà supera di gran lunga la fantasia».
A un certo punto del libro, lei sostiene che Santo Emanuele, sotto una cascata a Pacunaímba, «si sentì in mezzo a un paradosso: nel perdere tempo, scovava il senso del tempo». Puoi spiegarci meglio il senso di questa frase?
«Santo Emanuele è un impiegato di un piccolo comune. Il suo lavoro lo ha abituato ad essere ordinato, elegante, impeccabile. All’improvviso si trova catapultato in una realtà selvaggia, completamente diversa dalla sua. In Brasile, i tempi sono dilatati. I due mesi trascorsi lì, a me sono sembrati un anno: non c’era internet, solo un internet café in tutto il villaggio. Avevo con me un cellulare per le emergenze, ma per chiamare casa dovevo raggiungere una cabina distante 40 minuti dal mio alloggio: così, assaporavo ogni momento di quel cammino. Durante il mio soggiorno, ho anche letto tantissimi libri, steso su un’amàca. Ho imparato che più si ha fretta, più il tempo ci sfugge. Che il tempo si allunga quando smetti di inseguirlo. Allo stesso modo, Santo Emanuele impara a prendersi il suo tempo, ed è per questo motivo che tutti, a Pacunaímba, lo incoraggiano a non avere fretta».
Bambini che giocano nelle pozzanghere di fango delle favelas, alberi di mato e jaca, scritte al posto delle insegne, bande musicali, preti che invitano alla messa esclamando “Allegria!”, e poi balli, colori e gente che per sorridere ed essere felice non ha bisogno nemmeno dei denti. Si tratta di un implicito invito, rivolto ai suoi lettori, a ritornare alla semplicità? È possibile secondo lei trovare una sintesi nel dualismo, tipico della nostra terra, tra natura e burocrazia?
«Sì, lo è. Io non sono per un ritorno indietro. Nel mio libro, Dedé è l’unico abitante di Lancastre ad essere sdentato, nonostante ciò è il più felice del paese. Una cosa che mi colpì molto è che in Brasile quasi tutti sono sdentati. Il mio è di fatto un invito alla semplicità, nel senso di lasciarsi andare, di fare quello che ci piace. In Brasile si è più slegati da quello che le persone pensano, c’è più libertà, nelle piccole così come nelle grandi cose. Verso la fine del racconto si legge: “Qui a Pacunaímba nessuno ha rancore”, il che significa “qui nessuno ti giudica”. Basti pensare allo stupore con cui Santo Emanuele accoglie la notizia che il suo parente ha avuto 16 figli con 3 donne diverse: sarebbe impensabile a Lancastre! Aggiungo anche che spesso sono proprio i bambini ad insegnarmi la semplicità. Io nei miei racconti cerco di rivolgermi non soltanto a loro, ma a tutti, usando un linguaggio semplice e con meno parole possibili».
A questo proposito, il riferimento ai nostri politici, arrivisti e pronti a tutto pur di conservare o di conquistare il potere e incuranti del bene dei propri elettori, è oltremodo chiaro. Crede che i bambini lo coglieranno appieno?
«Credo proprio di sì, tanto più perché ho scelto di parlarne in maniera giocosa. Anche i personaggi negativi della storia hanno dei lati positivi e una loro umanità. Alla fine Santo Emanuele sarà quasi grato al sindaco per avergli dato l’opportunità di compiere questo viaggio. Io ritengo che pure nella realtà essi siano un po’ buffi, e nel racconto non sono altro che allegorie, come Arrabàl che si asciuga il sudore con la fascia tricolore: il massimo gesto di disprezzo e di non rispetto verso ciò che dovrebbe rappresentare».
Esulando per un attimo dal testo, pare di capire che il suo modo di intendere l’insegnamento nelle scuole sia ben diverso da quello messo in pratica dai docenti di oggi. Com’è la scuola che lei immagina?
«Devo dire che le esperienze avute finora nelle scuole sono più che positive e soddisfacenti. Recentemente a Scampia ho tenuto un incontro sulla narrativa nella didattica e gli insegnanti erano molto entusiasti. Il loro entusiasmo è importante. Detto questo, la scuola che immagino è senz’altro una scuola “con più tempo”, senza l’ansia di dover concludere i programmi, un tipo di didattica partecipata, che ha bisogno di tempo, ma che è quella più utile, da mettere in pratica anche nei licei e negli istituti superiori: fare insieme, apprendere insieme, docenti e alunni. Non c’è bisogno di grandi fondi o grandi riforme. Anche qui: semplicità».
Una curiosità: anche Pacunaímba diventerà uno spettacolo teatrale come “Storia di una matita”?
«Chi lo sa, sicuramente è possibile, perché la storia ha una sua linearità ed è ricc
a di dialoghi, e questo aiuta nella trasposizione. Non nego che a me piacerebbe molto farne un film».
Un’ultima domanda: la leggerezza, quella di cui parlava Calvino, «il planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». Lei ha dichiarato che è la chiave della felicità. Cosa fa per perseguirla? Cosa crede che dovremmo fare per essere felici?
«Penso che ognuno abbia il proprio modo di praticare la leggerezza e, quindi, di provare ad essere felice. Per me vuol dire lasciarsi trasportare, non avere troppi pesi, troppi rancori. Vuol dire concentrarsi sulle cose positive della vita che, io credo siano sempre, comunque, in maggioranza».
Chiara Fazio
redazione@corrierecal.it
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