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"Dietro la porta" e quelle domande beckettiane

Ad una settimana del debutto al Cilea di Reggio Calabria, ora che le tante voci di commento e di plauso si sono attenuate, mi piace pronunciarmi su uno spettacolo che, durante la performance, mi ha…

Pubblicato il: 11/03/2016 – 10:34
"Dietro la porta" e quelle domande beckettiane

Ad una settimana del debutto al Cilea di Reggio Calabria, ora che le tante voci di commento e di plauso si sono attenuate, mi piace pronunciarmi su uno spettacolo che, durante la performance, mi ha emozionato e dopo, a chiusura del sipario, ha innescato in me il meccanismo della riflessione, perché l’opera teatrale in sé, nella sua intensa vita che si brucia e consuma nel tempo della rappresentazione, attraverso la fascinazione con cui seduce lo spettatore si apre poi alla molteplicità delle interpretazioni critiche. Non tutte sono plausibili, alcune sono ingiustificate, ma tutte sono consentite. Spero sia consentita anche la mia.
“Dietro la porta”, scritta e diretta da Gianni Quinto, con le musiche di Sandro Scialpi, ha evocato alla mia mente “Aspettando Godot” l’opera più celebre di Samuel Beckett, (scritta molti anni fa, tra il 1948 e il ’49 e rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1953), che per me riveste un importante significato personale: ascoltata per la prima volta alla radio all’età di sedici anni, è stata una “rivelazione”, perché mi ha svelato un mondo semisconosciuto, un teatro delle idee che, attraverso la sola forza della parola (alla radio non c’era nessuna immagine), scandagliava i grandi temi dell’esistenza, la vita e la morte.
So che il paragone potrebbe sembrare azzardato, ma allo stesso modo dell’opera più rivoluzionaria del teatro del ‘900, quella di Gianni Quinto ruota attorno al tema dell’attesa, unitamente a quello dell’incomunicabilità e della solitudine dell’uomo moderno.
Dietro la porta non ha una vera trama, non ci sono grandi azioni: tutto è costruito attorno al dialogo fra due personaggi: due barboni, Armando Meniconi (“Il Principe”) e Giovanni Passalacqua (“Il Terrone”), interpretati con grande maestria dagli attori Giacomo Battaglia e Gigi Miseferi.
I protagonisti, che si ritrovano per caso davanti a una porta chiusa, nella estenuante attesa che questa si apra e li faccia entrare, sono l’allegoria della condizione precaria dell’uomo contemporaneo e della sua inutile attesa di qualcosa che dia un senso all’esistenza, se non nella vita almeno dopo la morte, una salvezza ultraterrena che restituisca un significato alla completa inazione e al non-senso della condizione umana.
Ma se nell’opera teatrale di Beckett l’attesa si traduceva nell’astrattezza, o meglio nella sua totale apertura: la sintesi di tutte le attese possibili (Dio, il destino, la morte, la felicità), in quella di Gianni Quinto l’attesa rimanda a qualcosa di più reale perché diventa l’occasione per riflettere sulle più inquietanti problematiche del nostro tempo, quelle che ogni giorno ci coinvolgono dalle pagine dei giornali o dagli schermi televisivi, ma che qui sono trasfigurate e osservate, attraverso un cannocchiale rovesciato, dagli occhi di due persone-personaggi che dalla vita si sono ormai allontanati, pur restando legati ancora ad essa dai ricordi che stentano a dissolversi. All’apertura del sipario siamo introdotti dallo scenografo Pino Sorrentino in un non-luogo in cui il colore dominante è il nero. Nessun elemento scenografico se non una panchina e delle altalene che dondolano nel vuoto che circonda i personaggi. Una scenografia che rimanda ad un’idea di teatro che deve rivelare la sua finzione con il compito preciso di evocare, portare il pubblico a creare nella propria mente associazioni di senso.
Sappiamo che nella rappresentazione teatrale l’attore vive un’esperienza psicosensoriale intensa e la modula dall’esterno attraverso il rapporto che instaura con il personaggio: egli non diviene la persona che interpreta, ma si avvicina con le proprie esperienze interiori alla parte, sperimentando parallelamente una realtà soggettiva e oggettiva allo stesso tempo.
In questo senso, Battaglia e Misefari riescono a mantenersi distanti in maniera equilibrata dal personaggio, ma nel contempo sono in grado di vivere contemporaneamente la propria realtà e quella della finzione teatrale. I due attori, nei loro dialoghi, hanno la capacità di introiettare le battute in modo naturale, tanto da apparire identificati perfettamente con i loro alter ego della scena, coadiuvati anche dal fatto che hanno recitato insieme per molti anni.
Nella loro performance i due interpreti lasciano poco spazio all’elemento istrionico: le gag fra i due somigliano poco a degli sketch. Il loro lavoro è di contenimento, trattengono le emozioni, limitandosi a portare sulla scena le micro-azioni di cui è composto il testo e le sfumature psicologiche che caratterizzano i due personaggi: il Terrone molto energico nella sua illusione di poter ingannare l’attesa, il Principe più rassegnato. L’apatia e la disillusine del Principe, che si manifestano più volte nel corso dell’opera, esprimono quasi il rifiuto di comunicare, mentre il Terrone, che lo assale con i suoi discorsi per non sentirsi solo, testimonia l’esigenza dell’individuo di uscire dall proprie ansie e di instaurare con gli altri un rapporto di solidarietà.
L’unico istrionismo concesso agli attori è una camminata quasi danzante e un lento dondolarsi sulle altalene che pendono dall’alto. Sembra quasi che il regista abbia voluto così modulare “la leggerezza” che rende accettabile l’attesa, perché l’arricchisce di pause e silenzi, di movimenti iterati che tendono ad un intento esplicito: quello di accentuare una recitazione che resta costantemente tesa ad una riproposizione metaforica del gioco delle parti: i due personaggi si impongono come “funzioni”, portatori di un significato che lo spettatore deve decifrare.
“Dietro la porta” può essere considerata una metafora della condizione esistenziale: ognuno di noi si interroga, si pone delle domande, ateo o credente che sia, e aspetta una risposta, un qualcosa o un qualcuno che gli riveli il senso del tutto, che gli indichi il perché della nostra vita e delle nostre sofferenze, che gli dica chi siamo e perché siamo nati, che gli sveli finalmente cosa c’è dopo morte. Ma come cantava Bob Dylan nella famosa canzone Blowin’ in the Wind «Risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà». Forse l’unica risposta possibile, come ci dimostrano i due protagonisti della piéce teatrale, è quella di accettare la nostra comune sorte di miseri mortali, consapevoli che solo la solidarietà riuscirà ad alleviare questa condizione.

*critico cinematografico e teatrale

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