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SISTEMA REGGIO | Il karma dei De Stefano

REGGIO CALABRIA Rappresentano rispettivamente le radici solide e gli ultimi germogli di un clan che ha scritto di suo pugno la storia della ‘ndrangheta reggina e dei sistemi criminali tutti. Ugualm…

Pubblicato il: 16/03/2016 – 1:37
SISTEMA REGGIO | Il karma dei De Stefano

REGGIO CALABRIA Rappresentano rispettivamente le radici solide e gli ultimi germogli di un clan che ha scritto di suo pugno la storia della ‘ndrangheta reggina e dei sistemi criminali tutti. Ugualmente schivi e volutamente defilati dal contesto strettamente criminale, per anni hanno visto arrestare parenti anche prossimi, mentre le indagini mai riuscivano a sfiorarli. Adesso però anche l’avvocato Giorgio De Stefano e Dimitri, figlio di don Paolino De Stefano, sono finiti in manette. E per di più, per una vicenda circoscritta, meramente cittadina, che solo in minima parte restituisce l’immagine di un casato che – hanno svelato le indagini – si è preso le municipalizzate, ha infiltrato partiti come la Lega, è in grado di muovere latitanti in tutto il Medio e Vicino Oriente e provviste finanziarie per i paradisi fiscali di tutto il mondo. Quasi una beffa karmica per gli esponenti di un clan che su affari, politica e relazioni nazionali e internazionali hanno costruito la propria indiscussa grandezza.

L’AVVOCATO Di lui parlano i pentiti alfa e delta della ‘ndrangheta reggina. Collaboratori successivi, anche non calabresi, lo collocano attorno ai tavoli che hanno definito pagine buie della storia della Repubblica, dalla strage di Gioia Tauro a quella di piazza della Loggia, dal golpe Borghese alle latitanze nere, impastate di massoneria e sistemi criminali. Lo raccontano fra i fondatori di quelle superlogge gemelle di Reggio e Catania che hanno progettato e fatto nascere le leghe regionali, per poi cancellarle quasi interamente con un colpo di spugna. Lo accreditano come amico di personaggi potenti e oscuri della storia dell’Italia e delle sue mafie, come Raffaele Cutolo, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, Vico Ligato. Eppure, l’avvocato Giorgio De Stefano è caduto per un episodio circoscritto, una vicenda minore in quella che si presume la sua lunga carriera da politico e stratega criminale. Per i più, consigliori storico ed eminenza grigia del suo clan, è finito in manette per un bar, cui – da monarca quale viene definito, ma di cui ancora non è stata raccontata la storia – ha gentilmente concesso di alzare la saracinesca.

L’ULTIMO EREDE DI DON PAOLO Anche Dimitri, figlio più piccolo del cugino prediletto del legale, don Paolo De Stefano, cade con lui. Da quando i fratelli, Carmine e il capocrimine Giuseppe, sono dietro le sbarre tocca a lui – spiegano i pentiti Antonino Fiume e Roberto Moio – tanto fare da tramite fra il carcere e l’esterno, come dirigere l’organizzazione. A coadiuvarlo sul piano operativo c’è Vincenzino Zappia, il rappresentante scelto dal capocrimine come suo uomo a Reggio. Per il nuovo collaboratore Enrico De Rosa, fino a quando Giovanni De Stefano non è uscito dal carcere, Zappia «era anche più di Dimitri». E nei suoi confronti non nutriva certo la medesima stima mostrata nei confronti di Peppe De Stefano, per il quale- intercettato – si è detto pronto a dare anche la vita. «Dimitri – afferma De Rosa – ha un carattere molto così, se già Vincenzino Zappia diceva che Gianni era un “pisciaturi” (uno che non vale niente), figuratevi di Dimitri che poteva dire, per lui, l’unica persona della famiglia che aveva mezza cosa erano Peppe De Stefano e un tantinello di rispetto in più, ce lo aveva, per Carmine De Stefano. Ma dopodiché niente, cioè li rispettava per rispetto di Peppe e della famiglia per il suo senso di appartenenza».

AMBASCIATE SI’, MA CON DISCREZIONE Con il ritorno in libertà del parente, l’ultimo rampollo di casa De Stefano sembra iniziare ad esporsi un po’ di più. In un’occasione – racconta De Rosa – è andato da lui per fargli sapere che il cugino aveva necessità di vedere Mico Sonsogno. «E’ venuto nel mio ufficio, mi ha lasciato anche il numero di telefono nelle schede, con la scusa di una richiesta di un appartamento – riferisce il collaboratore – io non avevo capito che cazzo voleva in quell’istante, e poi mi ha sussurrato: “digli a Mimmo che lo vuole Gianni”». Una scena quasi surreale, racconta il collaboratore, perché « mi fa compilare tutto questa cazzo di scheda cliente con le richieste dell’appartamentino, come lo vuole, quello che vuole… Dopo, forse perché c’erano i miei dipendenti ed io non l’ho fatto accomodare nel mio ufficio retrostante, l’ho fatto accomodare in una sedia normale, non nel tavolo riunioni che c’era una stanza a parte, e lui mi disse poi sussurrando: “digli a Mimmo che lo vuole Gianni”, queste sono state le parole». In altre occasioni invece, si farà latore di richieste riguardanti alcune estorsioni – inclusa quella al Museo Archeologico nazionale – tuttora oggetto di indagine.

DUE IN UNO In silenzio dunque, anche Dimitri De Stefano portava sulle spalle gli affari del clan. Nel frattempo, il blasone del casato gli garantiva i benefici, l’accettazione e la deferenza accumulata negli anni dal clan fra la borghesia cittadina. Nella vita rappresentante di salumi Beretta, grazie al suo nome non aveva alcun problema a piazzare i propri prodotti. «Siccome è Dimitri De Stefano le cose gliele comprano, per stare tranquilli diciamo. Questo qua lo so perché lo so, perché me lo ha detto Mico, perché me lo ha detto un altro commerciante mezzo pazzo, Pietro (…)come fai a non prendere le cose da Dimitri, almeno se ti compri i prodotti da Dimitri sei tranquillo perché uno fa l’uno e l’altro, inteso che compri il prodotto e, in più, hai la protezione, la tranquillità che gli cacci il cappello ai De Stefano». Un cognome che al figlio piccolo di don Paolino serve anche in società. « lui godeva dei benefici della potenza criminale della famiglia. Che cosa intendo godeva dei benefici? Perché lui entrava nei locali e non pagava, andava nelle attività commerciali e sponsorizzava le aziende che gli parevano a lui».

LE SCARPE DI DON PAOLO Un capitale sociale accumulato dagli arcoti nel tempo, che nell’unico interrogatorio sostenuto il fratello Giuseppe De Stefano aveva spiegato dicendo che «tutta Reggio cammina con le scarpe di mio padre». Un immagine allusiva, ma potentissima per spiegare l’intreccio di favori e affari che negli anni ha legato la “Reggio bene” al clan di Archi. Anche il pentito Moio, a modo suo, esprime lo stesso concetto. «I De Stefano hanno questo di particolare, appunto sono una potenza, cioè conoscono, sono amici non lo so il motivo, conoscono, praticamente frequentano tutti, tutta la gente, la Reggio-Bene conoscono avvocati, conoscono notai, figli di notai, figli di avvocati, figli puru… cioè dalla gente bene». I fratelli De Stefano – spiega Moio – scelgono nell’èlite cittadina le loro frequentazioni. «Dimitri – racconta il pentito – non lo vede mai con un Fracapane per dire, oppure uno come me, Dimitri sempre, u viri parlarecu’ figghiu du’ nutaio, cu’ figghiu du’ dottore, cu’ figghiu di l’avvocato,va, voglio dire io, quando diciamo a Reggio Calabria, se si parla di Reggio Calabria, voglio dire». Ma, dice ancora Moio, la carriera e la caratura criminale del casato di ‘ndrangheta dei De Stefano a Reggio è cosa nota. «Su’ potenti, voglio dire c’è gente che nonostante tutto, con reputazione del genere, c’è gente che ci (inc.) escono con uno che ‘nto un secondo, vuol dire, uno lo può ammazzare». Eppure Dimitri, come Peppe e Carmine prima di lui, era faccia nota nei locali e nelle feste.

PROFESSIONE, FACCIA PULITA Arrestato nel 2004, ma poi scarcerato con tante scuse e l’archiviazione della sua posizione, si mostrava come il fratello che la famiglia aveva voluto lasciare pulito. A margine. Però, dice De Rosa, per quanto avesse un ruolo marginale rispetto a quello dei fratelli o del cugino Giovanni, «noi non ci siamo scambiati delle imbasciate tipo inerenti all’orario di una partita di calcetto ci siamo scambiati delle imbasciate inerenti a delle estorsioni». Per il gip Minniti, l’atteggiamento di Dimitri rispecchia quello adottato da tutti i componenti della famiglia De Stefano, che «sembrano aver assu
nto nel tempo un contegno sempre più guardingo ed accorto, con l’innalzamento ai massimi livelli delle contromisure di solito utilizzate per sterilizzare e comunque contrastare gli strumenti investigativi notoriamente utilizzati». Nonostante le cautele, adesso però anche lui è caduto per il medesimo bar che ha fatto inciampare il ben più anziano cugino.

LE CHIACCHIERE DI NUCERA A tirarli in ballo è Carmelo Nucera, uno dei soci del Ritrovo Libertà – l’ex storico bar Malavenda – nei lunghi mesi in cui gli investigatori ascoltano le sue conversazioni, grazie all’invasione di cimici piazzate nei negozi suoi e dei suoi soci. Non a caso. Nucera ha rilevato l’attività dopo due attentati – uno andato a segno e uno fallito – che hanno colpito il bar, passato di mano dopo un periodo di inattività. Inizialmente, gli investigatori sembrano voler capire se lui abbia qualcosa a che fare con quegli ordigni. Poi, come dice il vecchio proprietario Malavenda, capiscono che lui è «andato a togliere le castagne dal fuoco» a Nicolò, che prima di lui aveva tentato di rilevare l’attività. Lì vicino infatti c’è il bar degli Stillitano, reggenti del quartiere per conto dei Condello, che a suon di bombe sono intenzionati a spazzar via la concorrenza. Con Nicolò ci riescono. Con Nucera e i suoi soci – Giovanni Carlo Remo e Saverio Donato – no. E’ gente che sa come muoversi. Pur di vincere le resistenze degli Stillitano e aprire il bar, Nucera inizia un lungo pellegrinaggio fra reggenti e uomini d’ordine di Santa Caterina, poi capisce che se vuole davvero risolvere il problema deve andare a bussare dal “massimo” – così lo definisce – Giorgio De Stefano.

POLIZZA DE STEFANO Grazie ai buoni uffici di un amico viene contattato dal legale per un’assicurazione che verrà negoziata nell’agenzia Carige gestita dalla figlia Diana. Ma non si tratta di una polizza. Il responsabile di Milano ha detto no a quella pratica. Ma l’assicurazione – quella più importante – arriva lo stesso. Ed è Nucera a rivelarlo al vecchio proprietario Malavenda, «loro praticamente da più parti mi danno la garanzia al mille per mille di alcune cose, che lui (n.d.r Giorgio De Stefano) dice che loro (n.d.r. gli Stillitano) non contano un cazzo». Anche la polizza prima o poi dovrebbe arrivare perché Diana, racconta l’imprenditore riportando le parole della donna « se i fatti sono così mi ha detto lei che si assume la responsabilità lei perché, ha detto papà – dice – di fare l’assicurazione … (inc.) … qualche movimento c’è stato, no?». Ma la garanzia che quel bar aprirà i battenti e non dovrà chiuderli a causa di una bomba lo assicura anche il reggente Roberto Franco «Io ho parlato, io ho parlato sia con i De Stefano, e sia con i Tegano. Lo sai cosa mi ha detto Dimitri? “Tranquillo … “gli ho detto io: “a parte tutto che è un bravo cristiano”, dice “per noi si”». Elementi – dice il gip – che «declinando la massima e qualificata probabilità, richiesta in questa sede della colpevolezza» degli indagati consentono di chiudere il cerchio su un sistema. I suoi confini e le sue ramificazioni, sono – adesso – tutti da approfondire.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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