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Di nuovo sbarchi, un'altra vittima

REGGIO CALABRIA È ricominciata la stagione degli sbarchi a Reggio Calabria. A poco più di tre mesi di distanza dall’ultimo arrivo, la nave Aviere accompagna al porto calabrese dello Stretto 590 red…

Pubblicato il: 17/03/2016 – 21:30
Di nuovo sbarchi, un'altra vittima

REGGIO CALABRIA È ricominciata la stagione degli sbarchi a Reggio Calabria. A poco più di tre mesi di distanza dall’ultimo arrivo, la nave Aviere accompagna al porto calabrese dello Stretto 590 reduci dall’ennesimo viaggio della speranza. Ma non tutti sono riusciti a bussare alla porta della fortezza Europa. Una ragazza non ce l’ha fatta.

VIAGGIO INTERROTTO Vent’anni, venticinque al massimo, è stata schiacciata o asfissiata dai compagni di viaggio, mentre dalla Libia tentava di arrivare in Italia. «Pensi – dice il capitano di fregata Emiliano Pezzin – che su un gommone che è fatto per trasportare dieci, massimo dodici persone ne troviamo cento, centoventi. Questo basta a immaginare lo spazio vitale che ha ognuno di loro, dove mettono i piedi. Molti di loro non riescono mai a sedersi, durante tutta la traversata. Stanno per giorni in mare, in condizioni limite».
Non si sa – allo stato – cosa abbia causato la sua morte, non si sa per chi o perché non è mai riuscita a toccare terra. A raccontare la sua ultima storia sarà l’autopsia, perché quella su quella terra che sognava così tanto, non è mai riuscita a mettere piede. Il suo corpo, chiuso in un sacco blu, è sceso dalla nave per primo. Dietro di lei, dopo ore di attesa seduti sul ponte della fregata, ha iniziato a mettersi in coda i suoi compagni di viaggio.

CONDIZIONI LIMITE Prima, i presunti scafisti, identificati dagli uomini della Mobile e isolati prima di essere accompagnati in Questura per interrogatori ed approfondimenti. Quindi i tanti che avevano il compito di condurre il più possibile vicino all’Italia. Stipati come merce neanche troppo pregiata, viaggiavano su quattro gommoni a quaranta miglia circa dalle coste libiche quando sono stati intercettati dalla nave della Marina Militare. «Quando siamo intervenuti le condizioni meteomarine non erano buone. Il mare era grosso, il vento superiore ai venticinque nodi, quindi anche per noi è una condizione limite. Grazie alla professionalità dei miei uomini tutto è andato bene, ma le condizioni in cui abbiamo operato erano tutt’altro che semplici».

OPERAZIONE AD ALTO RISCHIO Quando le onde sono troppo alte e il vento troppo forte è difficile, se non impossibile calare a mare i mezzi minori che si avvicinino ai gommoni. Microscopici gusci di noce in confronto alla fregata. Ma anche quando le condizioni meteomarine permettono di avvicinarsi senza rischi, l’operazione non è semplice. «Queste persone vengono dalle repubbliche centrafricane, in alcuni casi non hanno mai visto il mare prima di imbarcarsi. Molti non sanno nuotare. Quando vedono una nave che si avvicina, spesso si accalcano tutti su un lato del barcone, che finisce per rovesciarsi. Per questo, la prima cosa che facciamo quando ci avviciniamo è calmarli e distribuire giubbotti di salvataggio». Il rischio è sempre enorme. Soprattutto adesso che il mare rende tutto più complicato. E il rischio è grande.

ROSARIO «A bordo – dice il comandante –ci sono donne, molte anche in stato di gravidanza, bambini. Questa volta fra i migranti c’era anche un bimbo di poco più di due mesi, uno di quelli che a casa terremmo al sicuro, sempre protetto da una copertina. Da due giorni viaggiava al freddo e al gelo». In braccio alle madri – il volto provato dalla lunga traversata, le mani che stentano a lasciare i piccoli nelle braccia dei medici per i controlli – i bimbi sbarcano per primi. Dietro di loro, si sgrana il rosario – ormai consueto – della personificazione del fallimento delle diplomazie occidentali in Africa e nel Vicino Oriente.

STORIA CHE SI RIPETE Oggi come ieri, pazienti, si mettono in coda uomini e donne fuggiti mesi, se non anni fa, da Gambia, Senegal, Nigeria, Liberia, Camerun, Costa d’avorio, Gabon, Niger, Repubblica Centrafricana. Oggi come ieri, passano i controlli attenti dei medici che il Ministero dell’Interno, il 118, la Croce Rossa e l’Usmaf precetta, cui si aggiungono i tanti che spontaneamente si mettono a disposizione. Oggi come ieri, trovano i volontari che con un succo di frutta e una merendina, calze asciutte e scarpe nella misura del possibile, cercano di dare loro calore e conforto. Oggi come ieri, attendono stoici le procedure di identificazione di fronte a uomini della Questura che da tempo hanno smesso di calcolare le ore di turno, “scortati” da interpreti e mediatori culturali. Oggi come ieri, andranno incontro divisi al loro destino.

ANCORA NESSUNA STRUTTURA Nonostante ormai da tempo l’emergenza sia diventata cronaca, a Reggio Calabria non c’è ancora una struttura pensata per accogliere i migranti, né una mensa. Nonostante da tempo Reggio Calabria sia uno dei porti d’approdo delle navi che per missione o per “dovere del mare” soccorrono i migranti, molto, se non troppo viene lasciato all’impegno dei volontari, alla fantasia della Prefettura nell’individuare ricoveri, all’abnegazione di chi lavora perché la permanenza dei migranti non si trasformi nell’ennesimo girone dell’inferno che sono costretti a vivere da quando hanno iniziato il loro viaggio. Per questo, in quattrocento dovranno continuare oggi stesso il viaggio per arrivare in Puglia, all’hotspot di Taranto. Altri 132 verranno divisi fra Cosenza, Crotone e Catanzaro. A Reggio rimarranno i tanti minori non accompagnati, chi ha bisogno di assistenza medica prima di proseguire il viaggio, chi è troppo debilitato per continuare oltre. Poi, anche molti di loro dovranno partire. Perché la stagione degli sbarchi è appena iniziata e Reggio per l’ennesimo anno non ha strutture adeguate preparate ad accoglierli.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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