REGGIO CALABRIA Si aggrava la posizione di Vincenzino Zappia nel procedimento Il Padrino, che ha inchiodato capi e gregari del clan De Stefano-Tegano, che a vario titolo hanno contribuito al mantenimento del potere e dell’influenza degli arcoti, negli anni di latitanza dei loro massimi vertici. Il pm Giuseppe Lombardo, che ha coordinato l’inchiesta e sostiene l’accusa, ha modificato il capo di imputazione contestato a Zappia, chiedendo che venga processato come capo promotore dell’associazione. Delegato dal capocrimine Giuseppe De Stefano a rappresentarne gli interessi in città mentre lui si trovava dietro le sbarre, “Vincenzino” è stato meglio inquadrato nel contesto criminale anche grazie alle dichiarazioni del pentito Enrico De Rosa. Figlio della borghesia reggina che ha scelto di avvicinarsi ai clan, De Rosa per anni ha vissuto in simbiosi con Mico Tattoo Sonsogno, elemento di rilievo fra gli arcoti, delegato alla supervisione sul locale degli Zindato, quando i fratelli Gaetano e Francesco sono finiti dietro le sbarre, alla raccolta delle estorsioni per il clan De Stefano Tegano. Attività in cui De Rosa ha finito per essere per sua stessa ammissione coinvolto, ma che soprattutto gli hanno dato modo di conoscere Enzino Zappia. Con un passato da killer alle spalle, Zappia era considerato un uomo della vecchia guardia, ma soprattutto dall’autorità indiscussa proprio a causa del rapporto con Peppe De Stefano. Un fratello per cui avrebbe dato la vita – avrebbe confessato al collaboratore lo stesso Zappia – e per conto del quale amministrava il clan in sua assenza. «Vincenzino Zappia, in assenza di Giuseppe De Stefano, per dire tipo, come spesso ha detto anche lui, che Giuseppe De Stefano era suo fratello, inteso non suo fratello di sangue, che carnalmente erano fratelli, ma intesa fratelli come di ‘ndrangheta» – dice il 7 ottobre 2014 il pentito, spiegando che – «comandava ad Archi, comandava per quanto riguarda, a mio dire rappresentava i De Stefano». Un poter solo in minima parte ridimensionato dalla scarcerazione del cugino del capocrimine. «Forse – afferma il pentito – la figura poi è stata coadiuvata quando è uscito Giovanni De Stefano», ma anche sul Principe, Zappia ha dimostrato di avere un ascendente sconosciuto agli altri affiliati. E soprattutto di potersi permettere libertà inammissibili ai più. Zappia si riferiva a De Stefano chiamandolo “Il Principe”, ma – spiega il collaboratore – « tra virgolette a sfottò, perché diceva che non aveva lo stesso piglio e lo stessa coso di Giuseppe de Stefano, spesso faceva il paragone e diceva che si metteva appresso alle cazzate, che era poco,.. era un po’ inconcludente». Addirittura, riferisce il collaboratore, si poteva permettere il lusso di imitarne goliardicamente i modi di fare. «Ogni tanto lo imitavano che si “llisciava” tipo,.. Perché Cianni portava i capelli rasati no? Si “Iliisciava” il capello, la magliettina.. sempre perfettino». Fin troppo perfettino secondo Zappia. E fin troppo leggero nei comportamenti, per i quali più volte è stato anche pubblicamente rimproverato. «Nel senso che Enzo Zappia è una persona tipo molto importante, in questo senso (..) ha la facolta di mandarlo affanculo, cosa che non ho io. lo se lo mando affanculo mi prendo due schiaffi. E mi è andata bene, non so se mi spiego». Dichiarazioni contenute nei verbali che su richiesta del pm il gup Davide Lauro ha chiesto di acquisire, ma che il pentito De Rosa sarà anche chiamato a ripetere in aula il prossimo 29 marzo. In quella sede, il collaboratore dovrà rispondere alle domande del giudice, come del pm Lombardo e delle difese. A questi ultimi, Lauro ha infine concesso solo l’eventuale revoca della richiesta di abbreviato e la contestuale facoltà di ritorno al giudizio ordinario alla luce della modifica del quadro accusatorio iniziale. Un’arma a doppio taglio, mormorano i più. Perché il quadro, già complesso, potrebbe aggravarsi per molti degli imputati.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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