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Caso Alpi-Hrovatin, 22 anni di silenzi e misteri fra Bosaso e la Calabria

REGGIO CALABRIA Quattro commissioni parlamentari, otto processi e un nuovo giudizio che a breve potrebbe cancellarli. A 22 anni di distanza dall’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non c’è alc…

Pubblicato il: 20/03/2016 – 13:01
Caso Alpi-Hrovatin, 22 anni di silenzi e misteri fra Bosaso e la Calabria

REGGIO CALABRIA Quattro commissioni parlamentari, otto processi e un nuovo giudizio che a breve potrebbe cancellarli. A 22 anni di distanza dall’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non c’è alcuna verità definitiva sulla loro morte, come su quei traffici sull’Italia e la Somalia su cui stavano lavorando. Una pista inquietante, che dalla Somalia si è scoperta nel tempo legata alla Calabria e – forse – ad altri misteri, come quelle “navi dei veleni” – tra cui la Motonave Rosso spiaggiata ad Amantea e la Cunsky di Cetraro – che sono costate la vita al capitano Natale De Grazia. Vicende su cui una nuova inchiesta sulla morte dei due giornalisti Rai potrebbe contribuire a fare luce.

REVISIONE DEL PROCESSO PER HASHI Il prossimo 5 aprile si aprirà a Perugia il procedimento per la revisione del processo nei confronti di Hashi Omar Assan, condannato definitivamente a 26 anni di carcere per concorso nell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Il suo principale accusatore, Ali Rage Hamed detto Jelle – la cui testimonianza è stata fatta valere in contumacia, mentre si era già reso irreperibile – dalla Gran Bretagna ha rivelato di aver dichiarato il falso e accusato Hashi in cambio di soldi, su richiesta di un’autorità italiana. Hashi – ha detto – è solo un capro espiatorio. Di capro espiatorio avevano parlato anche i giudici del processo che in primo grado aveva assolo Hashi, segnalando come sospetta la sua individuazione. «Il caso Alpi – si legge nella sentenza – pesava come un macigno nei rapporti tra Italia e Somalia» dunque era necessario trovare un colpevole, ma – affermavano – è poco plausibile che sia Hashi, perchè «alcune piste potrebbero portare a ritenere che la Alpi sia stata uccisa, a causa di quello che aveva scoperto». Dello stesso parere non saranno invece i giudici dell’appello, che condanneranno Hashi a 30 anni, con pena ridotta poi dalla Cassazione, in barba anche alle testimonianze di chi ha dichiarato che Jelle non fosse presente sul luogo del duplice omicidio, come alle prime ritrattazioni del principale testimone d’accusa.

NUOVE VERITA’? Oggi, dopo oltre 15 anni di detenzione, Hashi potrebbe essere scagionato. E se Jelle si decidesse – finalmente – a dire chi lo ha pagato per mentire, forse una nuova inchiesta potrebbe andare oltre le verità di comodo e svelare non solo chi ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ma anche chi per anni ha lavorato per coprire i veri killer. Domande che secondo più di una controinchiesta trovano risposta nel lavoro dei due giornalisti Rai, che quando sono stati uccisi stavano indagando sul coinvolgimento dei caschi blu nei traffici di armi, rifiuti tossici, scorie nucleari tra la Somalia e l’Italia. Traffici in cui – ha svelato il pentito Francesco Fonti – c’era la ‘ndrangheta a fare da mediatore. È questa la pista che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin stanno seguendo prima di essere uccisi il 20 marzo 1994, a Mogadiscio. Solo loro. L’autista e l’uomo della scorta con cui viaggiavano no. Miracolosamente, escono illesi dall’agguato. Miran e Ilaria sono invece freddati a 300 metri dalla casa di Giancarlo Marocchino, noto faccendiere, frequentatore dei militari e, si dice, dei servizi segreti italiani. È lui il primo ad accorrere.

UN MISTERO TARGATO BOSASO Nei giorni precedenti, Marocchino aveva fatto scattare l’allarme fra i reporter italiani «Andate via, stanno preparando qualcosa contro di voi». Ma Miran e Ilaria i due giornalisti italiani non erano alla consueta conferenza stampa del contingente italiano. Erano a Bosaso, ad intervistare il sultano Abdullahy Moussa Bogor a proposito della flotta di navi Shifco, donata dalla Coooperazione italiana alla Somalia, del sequestro di uno di questi strani pescherecci senza cella frigorfera, e – forse – di qualche traffico di armi e rifiuti fra Italia e Somalia. Una pista su cui Ilaria lavorava da tempo. Dopo l’omicidio della giornalista, sulla sua scrivania in Rai viene infatti trovato un appunto. «Bosaso, Mugne, Shifco, 1.400 miliardi (fondi Fai) di lire…dove è finita questa impressionante mole di denaro?». E che Ilaria avesse intenzione di andare a Bosaso, lo conferma anche Alberto Calvi, l’operatore Rai che l’aveva accompagnata in Somalia per ben quattro volte (la prima nel 1992, le rimanenti nel 1993): «Non ci andammo prima perché impegnati a seguire i fatti di cronaca a Mogadiscio e perché non avevamo soldi e scorta a sufficienza; c’era il rischio di lasciarci la pelle», ha spesso ricordato Calvi, dopo la morte di Ilaria.

UN SERVIZIO BOMBA Ma a dirlo è anche Massimo Loche, l’allora direttore del Tg·. «Quando mi chiamò da Bosaso, il 17 marzo, sentii Ilaria molto eccitata perché aveva realizzato un buon servizio», dichiara Loche agli investigatori della Procura della Repubblica di Torre Annunziata. In una seconda telefonata al Tg3, fatta il 20 marzo ’94, e riferita dal collega Flavio Fusi, Ilaria avrebbe detto: «Ho delle cose grosse, ho un ottimo servizio».
Poche ore dopo un commando la  uccide insieme a Miran. Di quel servizio invece, non se n’è mai trovata traccia. Allo stesso modo, sono scomparsi i taccuini di Ilaria, un block notes fitto di appunti e una macchina fotografica, ripresi però dalle telecamere delle emittenti Rtsi (svizzera italiana) e Abc (USA) sul luogo dell’attentato. I cameraman che hanno fatto quelle riprese e i giornalisti che li accompagnavano non potranno mai raccontarlo però. Sono morti tutti in circostanze misteriose. Coincidenze che per più di uno confermano che c’era – e forse c’è- qualcosa da nascondere in Somalia. 

UN CROCEVIA DI TRAFFICI ALL’OMBRA DELLA COOPERAZIONEIlaria era convinta che a Bosaso succedesse qualcosa di strano. E ci aveva visto giusto. Nel 2004, interrogato dagli investigatori della Procura di Asti, Marcello Giannoni, titolare e socio della Progresso Srl di Livorno, che si occupava di smaltire rifiuti tossico-nocivi, rivela: «in Somalia sono arrivati sicuramente rifiuti tossici di tipo industriale e, forse, di tipo sanitario. Dove? Nella zona di Bosaso. Lo so con certezza. Sono stati impiegati, come materiale di riempimento, durante i lavori di realizzazione del porto e della strada che va a Garoe». E nel girato di Miran arrivato in Italia, quella strada c’è. Un lungo filmato di quella strada che unisce Bosaso a Garoe. Secondo la Procura di Torre Annunziata invece, di mezzo c’erano anche armi provenienti dall’Est Europa e portate in Somalia da Hercules C-130 italiani. A indicare questa pista è soprattutto l’imprenditore Francesco Corneli, ritenuto vicino ai servizi segreti siriani, nonché ex collaboratore esterno del Sisde, ascoltato più volte nel giugno 1997. Agli investigatori, Corneli ha fornito dei dettagli inediti: secondo lui, per fronteggiare la guerra civile che lo vedeva perdente, il dittatore somalo Siad Barre, tra il 1990 e il 1991, avrebbe chiesto ai suoi referenti socialisti in Italia di procurargli «armamenti di alta tecnologia». Invece, il 7 agosto 1997 un altro testimone, il veterinario Marco Zaganelli, afferma: «Nel periodo in cui sono stato in Somalia, io e tanti altri abbiamo notato con cadenza settimanale la presenza di aerei militari non identificati del tipo Hercules che scaricavano armi in Somalia».

LE RIVELAZIONI DI FONTI Ma di quanto succedesse in Somalia in quegli anni ne parla soprattutto Francesco Fonti, pentito gestito dalla Dda di Reggio Calabria e considerato – nonostante i tentativi di delegittimazione negli anni immediatamente precedenti alla sua morte – «uno che sa». Quando è stato chiamato a chiarire quei traffici, Fonti ha riferito per ore e ore. Delle due navi della Shifco – una carica di rifiuti compresi fanghi di plutonio, l’altra di armi- che dall’Italia vanno in Somalia tra Mogadiscio e Bosaso a fine gennaio ’93. Di un altro carico stessa destinazione nel 1987/1989. Di Giancarlo Marocchino come persona che ha fornito gli autom
ezzi da Mogadiscio a Bosaso. Di altri nomi “interessanti” per l’inchiesta compresi quelli di chi ha trattato con lui (italiani e somali) e di chi si è occupato dell’occultamento dei carichi. Fonti è stato chiaro. C’era la ‘ndrangheta dietro quei traffici, ma non era da sola. Altrettanto potenti ma istituzionali mani– ha sempre dato ad intendere Fonti – muovevano quelle navi.

I FILI CALABRESI Saranno state le medesime mani a far sparire dall’ archivio della Procura di Reggio Calabria, 11 dei 21 fascicoli archiviati, insieme al certificato di morte della giornalista del Tg3? Non è dato sapere. Così come non è dato sapere perché una copia di quel medesimo certificato di morte sia stata ritrovata a casa di Giorgio Comerio, noto faccendiere e ideatore del progetto di interramento in mare delle scorie nucleari finito al centro dell’inchiesta sul naufragio della motonave “Rosso”. Nel corso della medesima perquisizione, è stato rintracciato un altro documento relativo a una nave “persa” proprio nello stesso giorno dell’affondamento a largo di Capo Spartivento della Rigel (altra imbarcazione sospetta). Navi che passavano anche dalla Somalia. Navi a perdere. È questo il filo sottile che tiene insieme le storie che si aggrovigliano attorno al traffico dei rifiuti negli anni Novanta, e passano per la morte di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e del capitano Natale De Grazia. Anche lui è morto in circostanze misteriose proprio quando stava per interrogare una fonte confidenziale che avrebbe dovuto fornirgli altri elementi per ricostruire la storia delle navi a perdere. Carrette dei mari – secondo più di una fonte – per anni affare tanto di ‘ndrangheta, quanto di Stato.

DESECRETAZIONE Tanto la morte dei due giornalisti e del capitano De Grazia, come quella delle navi a perdere sono finite al centro di commissioni parlamentari d’inchiesta, che per lungo tempo hanno segretato i propri lavori. Di recente però, su larga parte di quel materiale è stato tolto il segreto. Gli atti della commissione Alpi sono addirittura consultabili on line. E chissà se, incrociando quelle carte e nuove indagini, una nuova inchiesta non possa restituire verità e giustizia a chi – in contesti e luoghi diversi – ha lavorato per svelare i traffici che hanno avvelenato la Calabria e il Mediterraneo.

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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