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Il nuovo Senato e la violazione della sovranità popolare

Fatte salve le osservazioni già svolte con riguardo alla inesistenza di una preclusione problematica critica nei confronti di alcune delle scelte di revisione costituzionale, soprattutto con riguar…

Pubblicato il: 21/03/2016 – 10:20
Il nuovo Senato e la violazione della sovranità popolare

Fatte salve le osservazioni già svolte con riguardo alla inesistenza di una preclusione problematica critica nei confronti di alcune delle scelte di revisione costituzionale, soprattutto con riguardo a quelle previste nel quadro della “nuova” riforma del titolo V Cost. (abolizione delle legislazione concorrente fra Stato e Regioni; riconduzione alla competenza esclusiva dello Stato di molte delle materie regionali di tipo concorrenti; introduzione della “clausola di supremazia” a favore dello Stato; abolizione delle Province e del Cnel) – sulle quali non risulterebbe certo irragionevole argomentare orientamenti differenziati – le ragioni fortemente critiche verso il testo di revisione costituzionale Boschi-Renzi risultano comunque prevalenti in ragione degli effetti di alterazione costituzionale dovuti al combinato disposto della revisione costituzionale e della nuova legge elettorale.
A tali profili critici si aggiungono, in ogni caso, le valutazioni problematiche e critiche relative a singoli profili della revisione costituzionale, come quelli relativi alle forme seguite nel superamento del bicameralismo, le quali si accompagnano con la (costituzionalmente dubbiosa) eliminazione della investitura democratica diretta dei senatori – da realizzarsi attraverso il voto personale ed eguale dei cittadini (art. 48.1 Cost.) – che nelle nuove modalità previste (dal nuovo art. 57 Cost.) configurano, come si è già ricordato, una chiara violazione di “principi supremi”, come quello della sovranità popolare (art. 1.1 Cost.) e quello di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.). Naturalmente – e l’argomento è ben presente negli studi e nel dibattito politico-costituzionale – nulla avrebbe impedito che l’assetto bicamerale del Parlamento potesse essere superato a favore di un assetto monocamerale ma a condizione che la procedura di revisione, da una parte, e le garanzie degli equilibri costituzionali ora distribuite nelle due Camere, dall’altra, continuassero ad assolvere compiutamente sia pure in forme nuove a quegli equilibri costituzionali che da due secoli a questa parte chiamiamo “democrazia costituzionale”, da conseguirsi attraverso la previsione di checks and balances, di pesi e contrappesi contro ogni possibile sbilanciamento del potere a favore di uno soltanto di essi, ed in particolare di quello esecutivo a tutto svantaggio di quello legislativo, quando non anche di quello giurisdizionale.
In proposito, si possono ricordare i risultati di una accurata ricerca svolta da Mauro Volpi (“Senato elettivo; il gioco delle mistificazioni”, in Il Manifesto, 26 settembre 2015), in cui si sottolinea come in quindici Paesi europei sia operante un sistema parlamentare di tipo monocamerale (in 14 di essi il sistema elettorale adottato è di tipo proporzionale); negli altri 13 Paesi europei con assetto parlamentare bicamerale, 10 si avvalgono di un sistema elettorale proporzionale e due di un sistema maggioritario a uno o due turni in collegi uninominali (Regno Unito e Francia).
L’altro importante dato sottolineato dalla ricerca appena richiamata è quello secondo cui non risulta affatto rispondente alla realtà l’affermazione utilizzata dalla maggioranza parlamentare secondo la quale la designazione indiretta dei senatori risulterebbe prevalente negli Stati federali e in quelli regionali. Al contrario, l’elezione popolare del Senato viene prevista negli Usa, in Svizzera, in Australia e negli Stati federali latino-americani, mentre con riguardo all’esperienza degli Stati regionali il caso meritevole di citazione è quello spagnolo, nel quale i 4/5 dei senatori sono eletti dal popolo e solo 1/5 è designato dai Parlamenti autonomici.
Per concludere sui risultati di questa ricerca, limitandoci ai soli 28 Paesi dell’Unione europea, si sottolinea come solo il Belgio preveda che i senatori vengano eletti dai Parlamenti delle istituzioni territoriali fra i propri componenti (in misura di 50 su 60), ma non può non sottolinearsi parimenti come, nel caso concreto, siamo in presenza di un federalismo di tipo asimmetrico con rilevanti problematiche di identità linguistica (quasi) del tutto assenti nel regionalismo del nostro Paese.
In sintesi, le soluzioni ora accolte dal legislatore di revisione, anche secondo le opinioni maggioritarie della dottrina, sono al contempo confuse, incerte, e irragionevoli nella loro giustificazione; e ciò tanto per le forme seguite nella composizione del Senato quanto per la nuova attribuzione delle relative competenze.
Se il testo di revisione avesse seguito l’indirizzo alla base delle proposte di revisione del governo Letta, che prevedevano una riduzione numerica dei componenti sia della Camera che del Senato, sarebbe apparso forse più ragionevole. Ma non vogliamo seguire questo argomento scivoloso, concentrandoci solo sul testo che verrà sottoposto al referendum costituzionale e non su cosa appare o sarebbe apparso più ragionevole.
Le incertezze e le confusioni persistono, infatti, quando si faccia riguardo alle nuove attribuzioni del Senato (al contempo poche, se si fosse voluto pensare ad un organo costituzionale rappresentativo dei territori, troppe per un organo che viene chiamato a partecipare alla stessa revisione costituzionale), quando si rifletta sull’assenza di previsioni in tema di “pesi” e “contrappesi” nella ridefinizione del bicameralismo e nella ri-centralizzazione di molte delle funzioni concorrenti ed esclusive delle Regioni (che pure meritano un profondo ripensamento istituzionale), quando si pensa allo sbilanciamento dei poteri a favore dell’Esecutivo al quale viene ora riconosciuto un monopolio pressoché assoluto sul potere legislativo e sulla rappresentanza politica, per lo stravolgimento della sovranità popolare operato dalla nuova legge elettorale e per i poteri debordanti – questi sì illegittimi costituzionalmente – accordati al partito che vince le elezioni, al quale, ancorché minoritario, vengono assegnati mediante premio elettorale una quantità di seggi parlamentari idonea ad assicurargli la maggioranza parlamentare del 54% (nella stessa assenza di previsioni vincolanti sul quorum dei votanti, che in una fase storica di forte astensionismo elettorale dovrebbe preoccupare rispetto alla qualità rappresentativa del nuovo Parlamento). Si tratta della stessa filosofia istituzionale alla base del “premierato assoluto” accolto nella revisione costituzionale votata dal governo Berlusconi-Bossi, contro cui il Paese si era già battuto in modo vittorioso nel 2006; è la “monarchia repubblicana”, per richiamare una qualificazione cogliente già utilizzata per le riforme gaulliste dal costituzionalista-politologo Maurice Duverger.

*Docente Unical

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