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Salviamo “Acerenthia” dall’abbandono

È il caso d’invocare nuovamente l’intervento di Teodoro, il santo che tagliò le sette teste del terribile drago a cui il paese (Cerenzia antica) doveva consegnare una fanciulla al mese per appagarn…

Pubblicato il: 29/03/2016 – 9:18
Salviamo “Acerenthia” dall’abbandono

È il caso d’invocare nuovamente l’intervento di Teodoro, il santo che tagliò le sette teste del terribile drago a cui il paese (Cerenzia antica) doveva consegnare una fanciulla al mese per appagarne la cupidigia. A quanto pare, non c’è altra possibilità. Soltanto un santo guerriero, indomito e coraggioso, può oggi liberare la Calabria dall’incubo che alcuni dei suoi beni storici vadano in fumo. E sgombrare lo straordinario sito archeologico della città fantasma di Acerenthia o Akerentia (dal nome del fiume Akeronte, il ramo dello Stige su cui Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti) dall’incuria, sterpaglie e ogni genere di trascuratezza che suscita, in chi va a visitarlo, ammirazione e, nel contempo, interrogativi e sdegno. Siamo andati a perlustrarlo lunedì scorso. Aldilà di un cartello, all’inizio della strada in salita che conduce agli scavi, nient’altro. Persino il cartello di fronte ai resti della Cattedrale è seppellito nelle erbacce. Non un chiosco per tenere depliant, brochure e materiale informativo. Neppure un custode, un vigile urbano o un cristo d’uomo (fra i tanti votati al Cielo) a sorvegliarne le magiche atmosfere, le “architetture dello spirito” e il tesoro, uno dei tanti e tra i più rilevanti come segnalano Italia Nostra e studiosi di vaglia, di cui è ricca questa parte della Calabria.

SOLO SAN TEODORO PUÒ SCONFIGGERE IL NUOVO DRAGO? Soltanto San Teodoro, raffigurato (in una statua lignea) a mezzo busto con una corazza militare e un peplo che avvolge l’avambraccio destro, la mano sinistra sul petto, i capelli ricci, un’aureola con le sette lingue del drago, lo sguardo sereno e trionfante rivolto al cielo, può sconfiggere il nuovo drago che si materializza nelle vistose lacune di chi avrebbe il dovere di proteggere la città antica. E mettere il borgo fantasma di Cerenzia, che prosperò per diversi secoli prima d’essere abbandonato nel 1844 a causa della peste (1528), terremoti (1638,1783), frane e penuria d’acqua, nelle condizioni di essere rigorosamente tutelato e salvaguardato da ogni forma di barbarie. Ma soprattutto per essere valorizzato, messo a profitto e a disposizione del turismo internazionale. Ci sono su quel colle ovale a circa 600 metri dal mare che, visto da lontano, impressiona l’occhio per la sua armoniosa bellezza, i segni di civiltà che hanno fatto la storia della Calabria e del Mezzogiorno. Da cui apprendere il passato glorioso e il rispetto del silenzio che invocano le orme del santo che sconfisse il terribile drago e le gesta di chi ci ha vissuto, a dispetto di automobili in velocità e moto cross sfreccianti in lungo e largo.

IL FIUME LESE E L’ACHERONTE DI DANTE Acerenthia fu fondata dagli Enotri o forse da Filottete, come sostiene Strabone, aveva all’incirca 7mila abitanti, nove chiese e un “Vescovado” (i resti della Cattedrale sono tuttora imponenti) influente. L’antica città prende il nome dal fiume Lese, un affluente del Neto che nasce dal monte Sordillo (versante est dell’altopiano della Sila). E’ un monumento che merita d’essere visto e amato. Per intuirne la rilevanza, basti citare quanto asserisce l’antropologo Vito Teti (si sofferma su Acerenthia in un libro memorabile, “Il senso dei luoghi”, in cui ne tratteggia le vestigia e indaga indizi e dettagli tramandati da fonti scritti e orali): «Qualcuno è pronto a scommettere che Dante è stato sicuramente da queste parti. E trova buoni argomenti per suffragare questa sua certezza. L’abate Gioacchino “di spirito profetico dotato”, nato e vissuto da queste parti, avrà invitato certamente il poeta fra questi luoghi. E la selva oscura deriva a Dante quasi certamente dai luoghi della Sila. E il fiume “Caron dimonio” altro non è che l’Acheronte, antico nome di Lese, a sua volta affluente di quel fiume Neto cantato dai poeti fin dall’antichità, tuttora centrale in un orizzonte magico – religioso e soprattutto in una dimensione di contatto con le forze ctonie». Deploriamo tutti l’odio dei fondamentalisti islamici per le opere d’arte e gli antichi monumenti. I talebani hanno fatto saltare in aria statue del Buddha millenarie, al-Qaeda ha distrutto a colpi di piccone un’antichissima moschea di Timbuktu e i jihadisti dello Stato islamico hanno infierito sul sito archeologico di Palmira. Ma cosa facciamo in Calabria per impedire che un’analoga foga distruttrice si consumi, magari con discrezione, gradualmente ma inesorabilmente, ai danni dei nostri beni storici, culturali e ambientali? Forse il paragone è azzardato, ma, come diceva Agatha Christie «un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». E la prova, purtroppo, basti girarsi intorno, è sotto i nostri occhi.

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