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L'"Era vulgaris" di Giriolo

LAMEZIA TERME Calabrese, eclettico e con quel tocco di intelligenza creativa che lo contraddistingue. Così si può descrivere Roberto Giriolo, artista reggino di Cataforìo che ha portato alcune dell…

Pubblicato il: 01/04/2016 – 10:24
L'"Era vulgaris" di Giriolo

LAMEZIA TERME Calabrese, eclettico e con quel tocco di intelligenza creativa che lo contraddistingue. Così si può descrivere Roberto Giriolo, artista reggino di Cataforìo che ha portato alcune delle sue creazioni al Crac di Lamezia Terme, il nuovo centro di aggregazione sociale e culturale che da qualche mese anima la vita intellettuale della città. Giriolo si presenta con una mostra dal titolo “Era vulgaris”, una raccolta di alcune opere messe insieme secondo un preciso intento espositivo in cui si racchiude non solo la varietà delle tecniche usate ma anche la concezione dell’uomo e il suo posto nel mondo.
Era vulgaris è infatti un’espressione latina – per indicare le radici del mondo occidentale con un pizzico di ironia – ma anche un titolo ricercato e lungo molti secoli, che l’artista riprende ispirandosi a partire da Keplero giungendo fino al quinto album della band californiana Queens of the stone age. L’uomo al centro della sua arte, quindi, ma soprattutto un uomo raffigurato al centro del suo destino, che si evolve e si modernizza. Ma questo non è altro che un processo che si rivela essere di omologazione e di comoda massificazione, in cui si perde qualsiasi forma di libertà di azione e di pensiero.
Tutto ciò viene rappresentato attraverso l’attualità: dall’immigrazione, agli sbarchi a Lampedusa, alla politica nazionale e internazionale, passando per lo sviluppo del capitalismo e di tutti gli strascichi che porta con sé. Ma c’è anche tanta storia, con l’evoluzione – forse distorta secondo l’artista – dell’uomo accompagnata dalle teorie di Darwin. Ma anche quella rivoluzionaria delle lotte e dei sindacati.
Solidarnosc e il suo leader Lech Walesa hanno rappresentato un punto fondamentale nell’arte di Giriolo, le cui foto vengono riproposte spesso all’interno delle sue creazioni. Su tutte, emblematica è l’opera Gli attraversati, una delle più apprezzate durante le sue esposizioni. I volti di tre persone qualunque in giacca e cravatta, al cui interno vengono riproposte le grandi tragedie dell’umanità, come Auschwitz, e le stesse lotte del movimento polacco. Un collage dal forte senso simbolico per evidenziare come l’uomo non solo non deve dimenticare, ma di come sia stato sempre coinvolto. Così come recita la canzone di De André «anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti», ricorda Valentina Tebala, critica e curatrice della mostra.
L’uomo è però anche fragilità ed emozioni. Giriolo parte infatti studiando l’anatomia dell’essere umano con la delineazione di scheletri, e soprattutto di cervelli e cranei. A ciò ha voluto affiancare la creazione di una vera e propria anatomia delle emozioni e dei fattori psicologici. Una sorta di «legittimazione scientifica secondo cui gli uomini, nessuno escluso, hanno naturalmente sentimenti come la paura, il rimorso o il ripensamento». Ed è in questa sua concezione che l’artista fa riferimento alla nota sindrome della “stirpe meridionale”: «Anche io ne faccio parte – spiega Giriolo – ed è quella paura secondo cui tutti i mali del Sud diventano ancestrali; nasciamo col complesso di inferiorità, cresciamo con l’abitudine naturale del lamento e nella convinzione di dover dipendere da un capo, impedendoci di pensare da uomini liberi».
L’arte di Giriolo parte dal collage. «Le sagome che l’artista ritaglia vengono posizionate su piano di una fotocopiatrice – spiega la curatrice – e impresse su cartoncini colorati dal formato di un foglio A4, da cui nascono dei prototipi monocromi, nero su fondo giallo, blu, verde o rosso». Da qui, giunge poi alla pittura e agli acquerelli – con una chiara influenza dell’espressionismo e del graffitismo americano -, che dalle classiche tele sfociano spesso nella stampa digitale.
Oltre alla disegno, ai pennelli e agli assemblaggi, porta in esposizione anche delle vere e proprie installazioni. Nuda cena è soltanto una delle tante produzioni in cui l’artista ripropone l’atto della commensalità: tavolo, sedie e stoviglie ma anche tanti coltelli e mannaie. Lame affilate che simboleggiano gli ostacoli nella comunicazione e come l’assenza di dialogo sia oggi piombata sulle nostre tavole; e la causa è da ricercare, appunto, in quella omologazione e perdita della libertà che sono al centro della sua concezione dell’uomo. Tra le creazioni, l’artista ha portato tra le sale del centro culturale di Lamezia anche dei dispenser di fazzolettini da bar. Un oggetto tanto banale, in cui l’arte entra di prepotenza, quasi a voler destabilizzare un momento spensierato: tovagliolo dopo tovagliolo si nascondono le domande esistenziali dell’uomo, ma anche dubbi e moniti che, scritti in diverse lingue, trasmettono un forte senso di universalità.
Un’artista versatile che si adatta a qualsiasi mezzo e a qualsiasi supporto le cui idee nascono spesso dal nulla e dalla casualità. Come ad esempio le opere dipinte su alcune assi in legno trovate nei cantieri edili. Giriolo, ebbe l’idea di trasformarli in veri e propri supporti artistici, lasciandoli così come li aveva trovati – in alcune assi si possono notare anche le impronte delle scarpe degli operai – utilizzando lo stesso colore del legno come vero e proprio pigmento che si va ad aggiunger al rosso e al nero, da lui tanto amati.
Ma c’è anche tanta Calabria all’interno delle sue opere. Dai Bronzi di Riace, «il bello che dovrebbe uscire», secondo Giriolo, passando per una rievocazione dei moti di Reggio, gli scritti di Alvaro e la lotta delle donne contro la ‘ndrangheta. Un interesse a 360 gradi verso la sua terra «Ho voluto rappresentare radici e soprattutto le contraddizioni di una terra che considero nonostante tutto come una mamma – ha spiegato l’artista –. Io viaggio molto e continuerò a farlo, ma poi ritorno sempre perché sono felice nel mio piccolo paese».
L’esperienza lametina si è conclusa ieri con la proiezione di un video inedito, prologo di un opera video più completa, dal titolo “La tentazione di Otrebor”. Un insieme di immagini reali e in movimento, che indicano il caos interiore dell’artista – Otrebor è infatti l’anagramma di Roberto – che ripercorre attraverso un dialogo con se stesso. Un bozzetto e un work in progress, che vede l’artista calabrese esplorare per la prima volta anche questa nuova frontiera dell’arte.

Adelia Pantano
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