REGGIO CALABRIA Rimangono in carcere l’avvocato Giorgio De Stefano e il cugino Dimitri, arrestati nell’ambito dell’inchiesta “Sistema Reggio”, che ha ricostruito l’asfissiante attività estorsiva con cui i De Stefano e i Condello, i casati di ‘ndrangheta che storicamente dominano la città, hanno imposto un vero e proprio regime parallelo. Il Tribunale delle Libertà, cui hanno fatto ricorso insieme agli altri 17 indagati della medesima indagine ha detto no a tutte le richieste presentate dai legali, confermando per tutti le misure cautelari.
L’AVVOCATO Sessantottenne, avvocato penalista con il pallino della politica, Giorgio de Stefano in passato era stato condannato “solo” per concorso esterno, ma è da sempre considerato l’eminenza del potente omonimo casato mafioso. Era il cugino prediletto di don Paolo, il boss che ha scritto di suo pugno la storia della ‘ndrangheta moderna, per i pentiti grazie anche ai consigli dell’avvocato. Di lui parlano i pentiti alfa e delta della ‘ndrangheta reggina. Collaboratori successivi, anche non calabresi, lo collocano attorno ai tavoli che hanno definito pagine buie della storia della Repubblica, dalla strage di Gioia Tauro a quella di piazza della Loggia, dal golpe Borghese alle latitanze nere, impastate di massoneria e sistemi criminali. Lo raccontano fra i fondatori di quelle superlogge gemelle di Reggio e Catania che hanno progettato e fatto nascere le leghe regionali, per poi cancellarle quasi interamente con un colpo di spugna. Lo accreditano come amico di personaggi potenti e oscuri della storia dell’Italia e delle sue mafie, come Raffaele Cutolo, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, Vico Ligato. Eppure, l’avvocato Giorgio De Stefano è caduto per un episodio circoscritto, una vicenda minore in quella che si presume la sua lunga carriera da politico e stratega criminale. Per i più, consigliori storico ed eminenza grigia del suo clan, è finito in manette per un bar, cui – da monarca quale viene definito, ma di cui ancora non è stata raccontata la storia – ha gentilmente concesso di alzare la saracinesca.
L’EREDE DI DON PAOLO Insieme a lui è stato arrestato anche l’ultimo figlio maschio di don Paolo rimasto in libertà. Per lungo tempo tenuto nell’ombra dalla caratura criminale dei fratelli, e Carmine e Giuseppe De Stefano, capocrimine dei clan reggini, quando i due sono finiti in carcere è stato costretto – spiegano i pentiti Antonino Fiume e Roberto Moio – tanto a fare da tramite fra il carcere e l’esterno, come dirigere l’organizzazione. A coadiuvarlo sul piano operativo c’era Vincenzino Zappia, il rappresentante scelto dal capocrimine come suo uomo a Reggio. Per il nuovo collaboratore Enrico De Rosa, fino a quando Giovanni De Stefano non è uscito dal carcere, Zappia «era anche più di Dimitri». E nei suoi confronti non nutriva certo la medesima stima mostrata nei confronti di Peppe De Stefano, per il quale- intercettato – si è detto pronto a dare anche la vita. «Dimitri – afferma De Rosa – ha un carattere molto così, se già Vincenzino Zappia diceva che Gianni era un “pisciaturi” (uno che non vale niente), figuratevi di Dimitri che poteva dire, per lui, l’unica persona della famiglia che aveva mezza cosa erano Peppe De Stefano e un tantinello di rispetto in più, ce lo aveva, per Carmine De Stefano. Ma dopodiché niente, cioè li rispettava per rispetto di Peppe e della famiglia per il suo senso di appartenenza».
NUOVO CORSO In silenzio dunque, anche Dimitri De Stefano portava sulle spalle gli affari del clan. Nel frattempo, il blasone del casato gli garantiva i benefici, l’accettazione e la deferenza accumulata negli anni dal clan fra la borghesia cittadina. Nella vita rappresentante di salumi Beretta, grazie al suo nome non aveva alcun problema a piazzare i propri prodotti. «Siccome è Dimitri De Stefano le cose gliele comprano, per stare tranquilli diciamo. Questo qua lo so perché lo so, perché me lo ha detto Mico, perché me lo ha detto un altro commerciante mezzo pazzo, Pietro (…)come fai a non prendere le cose da Dimitri, almeno se ti compri i prodotti da Dimitri sei tranquillo perché uno fa l’uno e l’altro, inteso che compri il prodotto e, in più, hai la protezione, la tranquillità che gli cacci il cappello ai De Stefano». Un cognome che al figlio piccolo di don Paolino serve anche in società. « lui godeva dei benefici della potenza criminale della famiglia. Che cosa intendo godeva dei benefici? Perché lui entrava nei locali e non pagava, andava nelle attività commerciali e sponsorizzava le aziende che gli parevano a lui».
LE REGOLE Un capitale sociale accumulato dalla famiglia De Stefano nel corso del tempo e che oggi – ha svelato l’inchiesta “Sistema Reggio” – fa sì che siano loro “il giudice di ultima istanza” in caso di controversie per l’apertura di attività. Sono loro a garantire a Carmelo Nucera che lui e i suoi soci potranno senza problemi aprire e portare avanti l’attività al “Ritrovo libertà”, il bar pasticceria destinato a sostituire lo storico caffè Malavenda. Sono loro ad assicurare il rispetto di quelle regole forgiate al fuoco della seconda guerra di ‘ndrangheta e cesellate su appalti e affari nel corso dei decenni. E sono loro per questo a dover rimanere in carcere, insieme a tutti quelli che a quel sistema di regole hanno aderito.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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