REGGIO CALABRIA 13 aprile 2012: gli uomini della Dia arrivano in fretta nel cuore della Milano bene. Bussano alle porte di case e uffici, arrivano in forze a via Bellerio, un tempo storica casa della Lega, ma soprattutto si fermano al 14 di via Durini, sede della Mgim dove parte la perquisizione che negli anni a venire farà tremare molte reti di potere, meneghine e non solo. Devono eseguire il decreto emesso dai Tribunali di Reggio Calabria, Milano e Napoli contestualmente agli avvisi di garanzia per vari reati che nelle stesse ore verranno consegnati “all’ammiraglio” Romolo Girardelli, noto alle Procure come vicino agli “ambasciatori” del clan De Stefano Paolo Martino e Antonio Vittorio Canale; all’allora tesoriere della Lega, ex sottosegretario del ministro Calderoli e uomo di peso in Finmeccanica, Francesco Belsito; al sedicente avvocato – neanche laureato – ma divenuto consulente del coindagato Belsito al ministero della Semplificazione, Brunello Mafrici; all’imprenditore veneto Stefano Bonet, alla sua segretaria Lisa Trevisan e alla sua collaboratrice Nadia Arcolin, al promotore finanziario Paolo Scala e a Leopoldo Caminotto. A Reggio, sono tutti indagati a vario titolo per una serie di reati che vanno dalla truffa al riciclaggio, per Girardelli aggravati dalla contestazione dell’associazione mafiosa perché considerati terminali di un sistema che avrebbe permesso a Belsito, dunque alla Lega, di creare un comodo tesoretto di fondi neri all’estero, approfittando dei canali messi a disposizione dalla ‘ndrangheta reggina.
LE IPOTESI DI ACCUSA Alla base del blitz un’inchiesta della Dia reggina coordinata dal procuratore Giuseppe Lombardo nel 2009. In quell’estate il pm della Dda ordina alla Direzione investigativa antimafia di seguire le tracce di alcune intestazioni fittizie di esercizi commerciali nel centro di Reggio, riconducibili alle cosche De Stefano, Condello e Tegano. Lombardo segue gli indizi affiorati in una precedente inchiesta, istruita nel ’99 da Alberto Cisterna, dagli esiti infelici ma – a detta del procuratore – con spunti interessanti. Sono soprattutto tre gli uomini che compaiono in quei faldoni che il pm Lombardo chiede alla Dia di monitorare: Romolo Girardelli, detto l’ammiraglio, ufficialmente “procacciatore d’affari”, considerato uomo “a disposizione” di tutte le cosche per transazioni economiche e finanziarie di ogni genere e tipo, il suo ultradecennale socio Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega e sottosegretario del ministro Roberto Calderoli, e Paolo Martino, conosciuto anche come il Ministro del Tesoro della ‘ndrangheta, braccio finanziario dei De Stefano al Nord Italia, cui tutti i personaggi dell’inchiesta che coinvolge oggi Belsito sembrano essere in qualche modo relazionati. Ed è proprio seguendo le tracce di Martino che gli inquirenti arrivano a Milano e si scontrano con il gotha del secondo più grande partito del centrodestra italiano. Indagini che si incrociano con quelle istruite dalle Procure di Napoli e Milano, che puntano su una serie di transazioni finanziarie sospette, monitorate fra il 2010 e il 2012.
SCACCO MATTO ALLA MGIM Gli elementi che i magistrati reggini hanno in mano sono solidi, ma è la perquisizione alla Mgim, cuore finanziario del gigantesco sistema di riciclaggio fiutato dalla Dda reggina, a far capire al pm Giuseppe Lombardo di avere molto di più da scoprire. Creatura di Lino Guaglianone, ex tesoriere dei Nar che ha trovato nuova verginità politica sotto l’ala protettrice dell’ex ministro Ignazio La Russa, la Mgim ha dato casa e consulenze al melitese Brunello Mafrici, ma il 13 aprile di quattro anni fa, la perquisizione non si limita al suo ufficio. Per ordine del pm Lombardo verranno sequestrati i server della Mgim che conservano – tanto gelosamente da blindare tutto con un complesso codice di cifratura – le tracce di tutti gli affari, le consulenze e le commesse che la società ha trattato.
LA SECONDA PERQUISIZIONE Proprio quei file, poco più di un anno dopo, portano gli uomini della Dia nuovamente negli uffici della Mgim, dove a Guaglianone notificano un avviso di garanzia con una contestazione che lo preoccupa non poco. È indagato per violazione della legge Anselmi – quella servita per fare tabula rasa della P2 di Licio Gelli – aggravata dall’aver favorito la ‘ndrangheta. Assieme a lui finiscono sotto indagine in quel filone d’inchiesta non solo Mafrici e Girardelli, ma anche uno dei suoi soci, Giorgio Laurendi, una serie di imprenditori di Reggio Calabria, fra cui Michelangelo Tibaldo, e un ex consigliere comunale della città calabrese dello Stretto, Giuseppe Sergi, un tempo proconsole dell’ex governatore Giuseppe Scopelliti.
ASSOCIAZIONE SEGRETA LEGATA ALLA ‘NDRANGHETA Per il pm Giuseppe Lombardo e il sostituto della Dna Francesco Curcio, all’epoca applicato all’indagine, farebbero tutti parte di un’associazione segreta riferibile al clan De Stefano finalizzata non solo al riciclaggio e reimpiego di capitali illeciti e al controllo di importanti settori imprenditoriali, ma soprattutto impegnata a tessere quella tela di relazioni politiche e istituzionali, che toccano i centri nevralgici del potere del Paese, in grado di catapultare gli uomini della cosca e i soggetti anche imprenditoriali a loro riferibili, ai vertici del panorama nazionale e probabilmente internazionale. Gli stessi soggetti imprenditoriali che in quegli anni si stavano, direttamente o per interposta persona, giocando la grande partita di Expo e delle partecipate e che – dice l’accusa – usavano lo studio Mgim come crocevia e centro di smistamento.
OBIETTIVO RICICLAGGIO Una struttura criminale – sul cui vertice il pm Lombardo e la Procura mantengono tuttora il più stretto riserbo – che nel tempo avrebbe costituito e messo in opera «schemi operativi finalizzati ad occultare la reale natura delle attività svolte dovendosi ritenere che anche attraverso molteplici operazioni di consulenza finanziaria e commerciale illecita (in quanto finalizzata a illegale arricchimento), riguardante operazioni imprenditoriali relative al contesto territoriale reggino riferibili all’attività professionale svolta dalla Mgim con studio in via Durini a Milano, si siano poste in essere attività dirette ad agevolare operazioni di riciclaggio o reimpiego di ingenti capitali di provenienza delittuosa».
LA RETE DEI DE STEFANO E se la provenienza di capitali e direttive è per gli inquirenti oltremodo chiara e chiaramente riferibile all’entourage degli arcoti, altrettanto palese è la tecnica attraverso cui il clan e quelli che la Procura ritiene i suoi referenti imprenditoriali e istituzionali avrebbero tessuto la loro tela. Nel corso delle indagini preliminari – si legge nelle carte – sono emersi infatti «continui contatti e collegamenti fra i soggetti investigati ed ambienti politici e istituzionali, che hanno consentito a più di un indagato – ben collegato alla cosca De Stefano – di ricoprire incarichi in tali ambiti operativi». Personaggi – si leggeva all’epoca nelle carte d’indagine – «già raggiunti dalle indagini in corso e da considerare diversi e ulteriori rispetto a quelli riferibili ai soggetti facenti parte del sodalizio oggetto di contestazione, a loro volta risultati collegati, al fine di sviluppare i loro programmi illeciti, alle attività politico-finanziarie della Lega Nord».
TERMINALI ISTITUZIONALI Un riferimento sibillino legato tanto al mondo della Lega Nord e al suo tesoriere Francesco Belsito, scelto come materiale esecutore di «operazioni politiche ed economiche che hanno consentito alle persone sottoposte ad indagini di divenire il terminale di un complesso sistema criminale di natura occulta», ma anche – sveleranno i successivi approfondimenti investigativi – all’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena e all’ex ministro Claudio Scajola. I più lo scopriranno solo nel 2014, quando verrà data esecuzione al mandato di arresto ne
i loro confronti emesso dal gip di Reggio Calabria, ma già un anno prima la Dda aveva iniziato a stringere il cerchio su quei soggetti «ancora in corso di individuazione collegati anche ad apparati istituzionali» che hanno permesso alla “struttura criminale” di «acquisire e gestire informazioni riservate (…) canalizzate a favore degli altri componenti della ramificata organizzazione».
STRUTTURA ANTICA Notizie poi utilizzate «al fine di dare concreta attuazione al già esposto e articolato programma dell’associazione per delinquere oggetto di contestazione, i cui componenti risultano portatori di specifici interessi fra loro concatenati». Una struttura – molto simile a quella individuata più di un decennio fa dall’allora procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato, nell’inchiesta Sistemi criminali – «impegnata in operazioni ad alta redditività nel campo immobiliare e finanziario, destinata al riciclaggio e reimpiego di risorse economiche di provenienza delittuosa riconducibili ad ambienti criminali legati alla cosca De Stefano».
L’AFFAIRE MATACENA Operazioni – ipotizza la Procura – come quelle gestite per lungo tempo dall’ex parlamentare di Forza Italia, oggi latitante per mafia, Amedeo Matacena. La Dda di Reggio Calabria lo cerca dall’8 maggio del 2014, quando ha chiesto e ottenuto l’arresto per la moglie del politico armatore, Chiara Rizzo, la segretaria e il collaboratore storico dei coniugi, Mariagrazia Fiordelisi e Martino Politi, l’ex ministro Claudio Scajola, e la sua segretaria, Roberta Sacco. Quest’ultima è già stata condannata in abbreviato, mentre per gli altri continua – lentamente – il processo con rito ordinario. Altrettanto lentamente, ma in maniera sempre più coerente, si va disegnando il mosaico che lega il filone “Matacena” alla costola madre dell’inchiesta Breakfast.
OMBRE DIETRO MATACENA Per i pm «le acquisizioni investigative hanno condotto a disvelare la piena operatività di un vasto e qualificato numero di soggetti dedito alla commissione di condotte delittuose e di particolare gravità, alcune contro il patrimonio, finalizzate a schermare la reale titolarità di imponenti cespiti patrimoniali in capo a Matacena Amedeo Gennaro, indi volte ad aiutare il predetto a sottrarsi alla esecuzione della pena a lui applicata». Stando a quanto svelato dalle indagini, infatti, mentre una vera e propria “operazione a orologeria” ne metteva al sicuro i capitali, il politico-armatore, condannato in via definitiva per mafia, avrebbe dovuto trovare asilo politico in Libano, paese in cui – stando a quanto assicurato dai massimi vertici istituzionali libanesi a Vincenzo Speziali, anche lui indagato nel procedimento e inseguito da un’ordinanza di custodia cautelare – non avrebbe avuto limitazioni di sorta.
L’ARCHIVIO SEGRETO A svelare particolari e dettagli di quel duplice piano sono state le carte e – soprattutto – i file rinvenuti e sequestrati a casa della segretaria dei coniugi Matacena, Mariagrazia Fiordelisi. Contestualmente all’esecuzione dell’ordinanza, il pm Lombardo ha infatti ordinato e curato il sequestro non solo di carte e documenti in possesso degli indagati, ma anche di qualsiasi dispositivo informatico o telematico potesse contenerli. E proprio nei computer della Fiordelisi, custode storica dei segreti dei Matacena, gli uomini della Dia hanno trovato le “chiavi” per entrare nella rete che si è attivata per salvare il politico, inseguito dall’esecuzione di una condanna definitiva per mafia.
PERQUISIZIONE FONDAMENTALE Nelle mani del tenente colonnello Omar Pace, morto suicida alla vigilia dell’udienza durante la quale avrebbe dovuto riferire sulle sue attività, i computer della Fiordelisi hanno iniziato a parlare. Lì sono state trovati atti e documenti che legano a doppio filo le attività di Matacena a quelle della ‘ndrangheta reggina, omaggiata degli appalti strappati dal general contractor Cogem, secondo uno schema che nella città calabrese dello Stretto si ripete identico in ogni settore di business. Lì sono state rinvenute le comunicazioni che mostrano come l’ex ministro Scajola abbia per anni agito prima come “facilitatore” di appalti, contratti e consulenze materialmente gestiti da Matacena, quindi come “tutor” della Rizzo, chiamata a gestire l’immenso patrimonio di contatti e affari del marito durante la sua latitanza. Lì sono saltati fuori nomi, mail e contatti con insospettabili terminali istituzionali e finanziari, che chiamano in causa i massimi vertici dell’economia e della politica italiana. Ma lì, soprattutto, sono venuti fuori gli elementi che spiegano perché in tanti si siano attivati per salvare Matacena.
OPERAZIONE DI AUTOTUTELA Un piano complesso ma – ha spiegato più volte anche in pubblica udienza il pm Lombardo – con un obiettivo chiaro: «Proteggere economicamente uno dei più potenti e influenti concorrenti esterni della ‘ndrangheta reggina, visto il rilevantissimo ruolo politico ed imprenditoriale rivestito dal Matacena e per questa via, agevolare il complesso sistema criminale, politico ed economico, riferibile alla ‘ndrangheta reggina, interessata a mantenere inalterata la piena operatività del primo e della galassia imprenditoriale a lui riferibile, costituita da molteplici società ed aziende utilizzate per schermare la vera natura delle relazioni politiche, istituzionali ed imprenditoriali dal predetto, garantite a livello regionale e nazionale». Per gli inquirenti infatti, Matacena altro non era che la «stabile interfaccia della ‘ndrangheta, nel processo di espansione dell’organizzazione criminale, a favore di ambiti decisionali di altissimo livello». E per questo, da tanti, è stato tutelato e agevolato. Ma potrebbe non essere stato l’unico.
QUEL FILO ROSSO CHE PORTA A DELL’UTRI Come lo stesso gip Olga Tarzia ha spiegato chiaramente nell’ordinanza con cui ha disposto – invano – l’arresto di Vincenzo Speziali, la medesima rete che si è attivata per “salvare” Matacena, potrebbe essere entrata in azione per tentare di salvare l’ex senatore Marcello Dell’Utri, condannato in via definita a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. «Siamo di fronte – scrive al riguardo il gip – a un comportamento allarmante in ragione degli evidenziati elementi di analogia tra le due vicende, Dell’Utri e Matacena e la sicura esistenza di una rete di rapporti e basi logistiche in grado di supportare la condizione di latitanza di soggetti la cui notorietà, per il contesto politico di provenienza, è tale da richiedere entrature e condivisione di interessi ad alti livelli». Dietro entrambe le operazioni – spiega il giudice – si intravede un «sistema ancora non messo interamente a nudo» che «opera nell’ombra e sostiene interessi economici e imprenditoriali illeciti, frutto di intese e cointeressenze coinvolgenti svariati settori». Un sistema di cui gli inquirenti sono certi facciano parte Speziali, Matacena e l’ex ministro Scajola, ma nel cui organigramma ipotizzano di poter inserire personaggi di rilievo della politica, dell’imprenditoria e della finanza italiana.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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