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“Fine pasto”, la terza via di Teti nella repubblica di Masterchef

Di cibo, tanto si parla, meno si pensa. Nella repubblica gastrocratica di Masterchef, Vito Teti (“Fine pasto. Il cibo che verrà”, Einaudi, 2015) ci regala una necessaria vacanza dall’estraniamento …

Pubblicato il: 16/04/2016 – 15:14
“Fine pasto”, la terza via di Teti nella repubblica di Masterchef

Di cibo, tanto si parla, meno si pensa. Nella repubblica gastrocratica di Masterchef, Vito Teti (“Fine pasto. Il cibo che verrà”, Einaudi, 2015) ci regala una necessaria vacanza dall’estraniamento rispetto al contenuto dei nostri piatti. Muovendosi tra storia e antropologia, letteratura e ricordi, fonti scritte e memorie orali, coerentemente con un percorso di ricerca avviato ai primi anni Settanta – quando del cibo come cultura o come fatto sociale totale ancora non si parlava – Teti ci porta, in poche ed efficaci, a volte poetiche, pagine, a ragionare sul “fine pasto” inteso come possibile fine della convivialità e della sacralità a tavola. Un rischio da scongiurare.
Un percorso di ricerca della terza via, praticabile, sostenibile e gustosamente onesta, tra le speranze di abbuffate del passato contadino e la devastante abbondanza di cibo-spazzatura dell’esistenza contemporanea.
Un viaggio nella storia dei migranti poveri, che partivano alla ricerca dell’abbondanza e tornavano costruendo una nuova narrazione della tradizione culinaria; un racconto dei racconti sul senso del limite, sull’acqua sacra, sui legami con la terra e con i compagni di vita. Un antidoto al folklore finto, un inno al recupero dei saperi e dei legami che ci rendono umani e ci restituiscono senso. Una scommessa e una speranza di utopia conviviale, di ricerca dell’essenza nel nonluogo dell’abbondanza.

Vito Teti osa criticare un paradigma di sviluppo in una sola direzione. Osa sottolineare come le presunte magnifiche sorti dell’Occidente lascino sul tappeto molte vittime, tra cui un vecchio approccio al “mangiare” che, a causa dei molteplici traumi provocati dalla storia più e meno recente, era costretto a porre al centro dell’esistenza la sacralità dei momenti di godimento. La dimenticanza della miseria del passato e il sospirato abbandono della costrizione alla frugalità hanno certo migliorato le condizioni di vita e di salute delle persone, generato pance piene e tavole sempre abbondanti, ma hanno dato origine ad altri eccessi, esagerazioni, sprechi sempre più vistosi fino a diventare elementi scandalosi di una normalità inquietante. E basti ricordare i problemi sanitari – tragedie personali che assorbono una parte inammissibile della spesa pubblica – e i disequilibri ecologici, la cui influenza crescente sulle nostre vite non dovrebbe farci dormire sonni tranquilli.
Nel capitolo finale del volume, dai riferimenti a una possibile apocalisse sempre incombenti e minacciosi, Teti avvia un’incisiva riflessione sulle possibili soluzioni alla crisi di una società obesa e ingorda, che suona come critica al claudicante modello della crescita infinita. La nostra “obesità” è possibile, certamente, perché qualcuno (in realtà, milioni di persone) è escluso dalle tavole imbandite e non è considerato da profonde ingiustizie sociali e alimentari. Martin Caparros, nel suo inquietante e insieme necessario “La Fame” (Einaudi, 2015), ricorda quanti esseri umani siano diventati inutili all’attuale modello di sviluppo. Un problema di cui, del resto, con troppa facilità tendiamo a dimenticarci, una tragedia che finiamo per rimuovere o sottovalutare. Possiamo pensare, ad esempio, alle popolazioni amazzoniche costrette ad abbandonare la terra madre secolare per lasciare campo libero ai fazenderos della soia, legume che serve ad alimentare la fame di carne economica in Europa e in Cina. La nuova povertà esistenziale di queste popolazioni, costrette a emigrare nelle città per aumentare la classe degli inutili, è quanto mai necessaria per rendere possibile la nostra ricchezza lipidica. E i confronti tra quanti possono permettersi di sprecare acqua e quanti, ad altre latitudini, non ne possiedono a sufficienza non sono semplici dati forniti per scandalizzare il lettore e provocargli sensi di colpa, ma analisi puntuali e veritiere che consentono di valutare meglio il nostro stile di vita pieno di eccessi e sprechi, spesso nascosti. Si pensi a quanta acqua viene oggi consumata per produrre carne e latticini. Il fatto che, sul nostro pianeta, esistano obesi e affamati in egual misura richiede riflessioni, approfondimenti e scelte etiche forti, come quelle suggerite da questo libro.
L’abbandono della sacralità e la crisi anomica e gastro-anomica che caratterizzano una società sempre più frammentata sono legati al distacco da «una patria di riferimento» che è anche alimentare, scrive Teti. Un allontanamento da un contesto storicamente delineato anche grazie alle fonti storiche e alle memorie dei nonni che ricordano le tragedie delle carestie. Teti non intende certo disturbare gli antenati per far dire loro quanto fossero contenti di vivere in povertà; non c’è nessun mito del buon tempo andato che intende far riecheggiare. L’intento dichiarato è quello di ricordare la loro idea di sobrietà per modellare, in maniera nuova, un presente più adeguato alle sfide odierne, «una reintegrazione dell’agricoltura e dell’alimentazione all’interno di un quadro sociale culturale, economico e ambientale che ne possa determinare la sostenibilità nel lungo periodo». Un passato necessario per un futuro possibile, quindi, «come rifiuto di sprechi, sofisticazioni, manipolazioni alimentari di cui non si conosce l’esito»; «il ricordo e la memoria come strumenti di giustizia».
L’abbandono dei digiuni obbligati non doveva necessariamente comportare la ricerca dell’eccesso. Forse si deve giungere a una sintesi capace di conciliare necessità dei consumi, conoscenza dei prodotti e dimensione sacrale del cibo. Questa è la potente, ma educatissima e oltremodo rispettosa soluzione che Teti suggerisce – sempre attento a non denigrare il mondo preindustriale, proprio in quanto necessario ispiratore di un rapporto più equilibrato col resto del vivente, e al contempo a non mitizzarlo per gli oggettivi elementi di tragica penuria (anche morale: difficile immaginare un maiale contento di incontrare il suo macellatore).
E giungiamo alle soluzioni. «Il ritorno alla terra non è più un’utopia»: in quest’ottica acquistano senso i prodotti di qualità, accompagnati o meno da certificazioni, frutto di processi produttivi nuovi, magari di fatiche di persone giovani che sono state ispirate dal post su Facebook di un amico pioniere e hanno abbandonato il lavoro precario di città per recuperare le terre di famiglia. In un Mezzogiorno che si va anche riscattando (si leggano le storie di Simona e Davide su casafilosofica.it ), si parla di futuro con mezzi del presente lavorando la terra, eterna e finalmente di nuovo sotto le luci della ribalta. Più che al passato, i nuovi agricoltori pensano a come immaginare un nuovo scenario per socializzare l’esperienza agricola e rendere produttori e consumatori corresponsabili di ciò che avviene nei campi. Se il cibo torna ad essere importante, deve sostenere efficacemente i contadini, i quali possono ricevere un adeguato compenso per il loro lavoro primario – e ciò può coincidere con l’esigenza, da parte di chi consuma quel cibo, di trovare prodotti genuini e compatibili con la cura dell’ambiente. Questo è possibile ripensando le reti di distribuzione e riscoprendo un rapporto diretto con i produttori, come mostrano le varie esperienze di Gruppi d’Acquisto Solidale in Italia, Community-Supported Agriculture in America del Nord e Associations pour le maintien d’une agriculture paysanne in Francia. Tramite la catena corta, il buon cibo può cessare di essere un prodotto di lusso e tornare semplicemente a far parte della normalità. Una nuova normalità di qualità e di relazioni, ancora circoscritta ma in espansione, in cui non hanno posto i capannoni di periferia pieni di offerte speciali e le futuristiche cattedrali urbane del consumo gourmet in cui un barattolo di confettura è trattato alla stregua di un collier di diamanti. Una nuova normalità che la politica deve sostenere, agevolando le relazioni dirette tra i contadini e chi comp
ra cibo e scoraggiando l’abitudine all’anonimo carrello della spesa del sabato pomeriggio, simbolo di uno dei più sacrileghi nonluoghi della surmodernità. Una nuova normalità affatto implausibile, come mostrano, tra gli altri, i racconti di Daniel Tarozzi (“Io Faccio Così”, Chiarelettere, 2013).
La sacralità di cui scrive Teti riguarda il cibo e le relazioni sociali attorno ad esso. È un principio necessario per ricercare e recuperare il valore di quello che mangiamo e del tempo che trascorriamo assieme al resto del vivente, semplicemente perché lo abbiamo perso. Resta l’urgenza di riconoscere la presenza di altre vite, umane e non, da rispettare, anche mangiando criticamente. Almeno tre volte al giorno, noi fortunati abitanti di un Paese benestante ci confrontiamo con piccoli pezzi di mondo che avvolgiamo nelle forchette, portiamo alla bocca nei cucchiai e mondiamo con i coltelli. Tanti piccoli altri soggetti che meritano importanza, attenzione, cura e responsabilità, siano essi radici in grado di connetterci alla nostra storia o stimoli alla conoscenza di un altro mondo. Possiamo permetterci di sperimentare nuove tradizioni che ci consentano di restare ancorati alle peculiarità dei luoghi d’origine ricreando consuetudini sociali sostenibili, possiamo e dobbiamo chiedere alla politica un sostegno concreto in tal senso, un passo in un’altra direzione rispetto allo scempio sociale ed economico della grande distribuzione organizzata e ai compensi da fame dei contadini e dei braccianti-schiavi di Puglia e Calabria.
Come bene emerge dal racconto di Teti, è ingenuo dipingere un tempo della sacralità distinto nettamente da un odierno inferno privo di scrupoli, così com’è ingenuo pensare che il complesso problema dell’accesso al cibo sia solo economico e non anche culturale (o che i due fattori non si influenzino a vicenda). Oggi raggiungiamo al contempo sempre nuovi picchi di follia ecologica e sociale e assistiamo alla crescita dei semi di speranza per un futuro diverso e Teti ci consegna alcune fondamentali considerazioni: senza un ancoraggio alla materia pura e semplice, senza un legame solido con la terra, la sua storia e i suoi protagonisti, nessun progetto politico calato dall’alto e dall’esterno (per esempio, dalle grandi holding e multinazionali del cibo di cui qualcuno si fa appassionato e interessato sostenitore) potrà funzionare. Una rete sempre più ampia di piccoli gesti di cambiamento radicati nelle tradizioni territoriali, supportati dalla politica, ecologicamente sostenibili e legati a doppio filo alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia della comunicazione istantanea potrebbe essere in grado di rieducarci al rispetto del cibo e dei mondi che lo circondano. L’etica e un senso sacrale del cibo, sempre più diffusi, non possono certo sostituirsi alla politica, ma risultano decisivi per creare una nuova consapevolezza e spingere ad altre scelte politiche che contrastino un modello di sviluppo omologante (oggi simboleggiato dal nuovo pericolo chiamato TTIP) il quale, anche quando parla di nutrimento, rimane estraneo all’essenza della vita e al rispetto della diversità. Più che la sovrastruttura, può il social network.

*Laureata in relazioni internazionali, vive a Roma e si occupa di cinema, consumo critico, decrescita e stili di vita alternativi

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