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In Calabria l'assistenza sanitaria rimane un sogno

In una regione come la nostra non potrà mai esserci un’assistenza socio-sanitaria capillare e omogenea. Responsabile di tutto questo è un territorio stupendo ma per gran parte impervio e dimenticat…

Pubblicato il: 18/04/2016 – 9:17
In Calabria l'assistenza sanitaria rimane un sogno

In una regione come la nostra non potrà mai esserci un’assistenza socio-sanitaria capillare e omogenea. Responsabile di tutto questo è un territorio stupendo ma per gran parte impervio e dimenticato da Dio, dal quale «i grandi e i piccoli» scappano per inseguire un più favorevole destino. Oltre 400 Comuni dei quali tantissimi inerpicati sulle impervie catene montuose calabresi. Un saldo di enti locali sfigati (ben oltre 220), da calcolarsi al netto delle Città che, da ottobre, non saranno più capoluogo di provincia (perché non ci saranno le Province), di quelle che non lo sono mai state ma che registrano ex se una loro importanza geo-demografica e di quelle, infine, bagnate dal Tirreno e dallo Jonio miracolate dal non isolamento.
Un saldo di enti locali sfigati (ben oltre 220), da calcolarsi al netto delle città che, da ottobre, non saranno più capoluogo di provincia (perché non ci saranno le Province), di quelle che non lo sono mai state ma che registrano ex se una loro importanza geo-demografica e di quelle, infine, bagnate dal Tirreno e dallo Jonio miracolate dal non isolamento. 
Nei paesi – perlopiù comuni c.d. polvere, che sono arroccati come dei presepi in siti dall’orografia spesso impossibile e da una rete stradale impraticabile – l’assistenza sanitaria territoriale esiste sulla carta. Delegata com’è a quei pochi professionisti convenzionati relegati a vivere ove tutto è periferico, emarginato e rimediato. Per non parlare dell’assistenza sociale ovunque mancante.
I fatti in Calabria testimoniano questo dramma nella sua interezza. La qualità dell’assistenza è ovunque la peggiore, fatta salva una (spesso) ottima ospedalità erogata prevalentemente a ridosso dei maggiori centri urbani, garantita da operatori sanitari che vanno ben oltre i loro doveri. 
Per il resto nulla, soprattutto per quei calabresi che (s)popolano i paesi montani, costretti ad una novella e crescente emigrazione. Quella emigrazione diversa dai loro padri intrapresa alla ricerca di fortuna, prevalentemente, nelle Americhe. Quei padri che mai avrebbero sospettato di lasciare al mondo i loro figli costretti a soddisfare il loro diritti primari a decine di chilometri da casa, peraltro dalla percorrenza disagiata e assistiti da un trasporto pubblico locale esercitato con vecchi autobus dagli orari spesso impossibili.
Una testimonianza – quella delle periferie ferite dalla inesigibilità dei diritti di cittadinanza – che la si desume anche dal documento integrativo dell’Atto di indirizzo per la medicina convenzionata licenziato qualche giorno fa dal Comitato di settore delle Regioni. Invero lo stesso, nel prendere correttamente atto dei limiti di funzionamento della attuale «medicina di famiglia», ha ritenuto di qualificarne ed estenderne la portata a 16 ore giornaliere. Non solo. Ha ritenuto indispensabile assegnare ai protagonisti della c.d. medicina di base il ruolo di playmaker dei successivi passi diagnostici e terapeutici dei loro assistiti. Un modo per favorire (finalmente) questi ultimi nel godimento dell’offerta di salute del Ssn e, in generale, l’economia ospedaliera facendo da efficace filtro dell’accesso ai pronto soccorso, sempre di più impossibili a frequentarsi da parte dell’utenza abbandonata in resse inenarrabili e a «svernare» i loro mali lungo i corridoi.
Il problema è che perdurerà il dramma assistenziale della periferia disagiata. Quella eternamente iellata, cui si faceva riferimento, campione della non godibilità dei diritti fondamentali.
Per tutta questa popolazione perbene, continuerà ad esserci infatti poco o nulla. L’elevato numero dei singoli comuni disagiati, le distanze intercomunali, le reti stradali, pressoché ridotte ad un insieme disorganico di mulattiere, la lontananza dai centri urbani e l’assenza di strutture intermedie salutari fisse non consentirà alcuna aggregazione assistenziale, del tipo quelle che saranno individuate nel nuovo accordo collettivo nazionale dei medici di assistenza primaria e di continuità assistenziale, che diverranno (quasi) un tutt’uno. A meno che non intervenga, in proposito, una specifica programmazione regionale a tutela di un altrimenti insopportabile disagio, spesso vitale.
Un handicap grave che andrà ad aggiungersi ai tanti che distinguono e affossano, per le difficili condizioni orografiche (e non solo), la Calabria dal resto del «mondo» in termini di esigibilità dei servizi. Ovviamente nel progressivo peius, atteso un commissariamento ad acta inutile e dannoso, che calpesta peraltro i principi costituzionali. 
Alla Regione l’ineludibile compito di pretendere, in ogni direzione istituzionale, che ciò non accada esercitando il ruolo che la Costituzione le assegna e forte del consenso popolare che ne ha determinato la guida politica. E ancora. Il dovere di programmare un decoroso welfare assistenziale in favore di quei cittadini «arroccati nel presepio montano», per i quali è rimasto sino ad oggi un illustre sconosciuto.

*Docente Unical

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