Ho visitato Brescello qualche anno fa, in compagnia di mia madre e di mio fratello. Era il primissimo pomeriggio di una giornata feriale di novembre e c’era poca gente in giro. Brescello oggi è un museo vivente: ovunque, nella piazza principale, nelle vie del centro, nella chiesa, campeggiano imponenti le statue e le foto di Peppone e don Camillo.
Figure errabonde sul desolato pianoro emiliano, io e i miei familiari passeggiammo nella quasi più totale solitudine per circa un’ora, aggirandoci con ammirazione fra le testimonianze vive e pulsanti della saga cinematografica di cui furono protagonisti gli indimenticati Gino Cervi e Fernandel.
Fernandel non era italiano. Di natali marsigliesi, aveva girovagato fra i vari palcoscenici francesi fino a quando non era stato chiamato a interpretare, nella trasposizione cinematografica, il famoso presbitero dei racconti di Guareschi. E sul set allestito nel comune di Brescello era cominciato il suo successo internazionale, che si consolidò sempre più nel corso degli anni grazie ai numerosi film della serie guareschiana.
A Marsiglia osservano un’adorazione quasi religiosa nei confronti della figura di Fernandel. Tanti degli affollati locali che si affacciano sull’assolato porticciolo della città francese conservano, a mo’ di preziosissimi cimeli, ricordi e souvenir dell’attore. In uno di essi – che peccato non essermene annotato il nome – troneggia in bella vista, protetto da una robusta corda divisoria, quello che doveva essere il tavolo preferito delle cene di Fernandel. È ancora apparecchiato di tutto punto: piatti, bicchieri, posate sono sistemati ordinatamente, quasi come se si fosse voluto cristallizzare per l’eternità uno dei tanti momenti sereni della vita del famoso interprete.
E così, in una Brescello sospesa a mezz’aria in un malinconico pomeriggio di fine novembre, rimirammo con sguardo incantato l’altare dal quale don Camillo lanciava le sue vibranti invettive contro i fautori del “sol dell’avvenire”, la piazza in cui l’onorevole Peppone radunava i compagni per orchestrare le feroci rappresaglie contro l’odiato parroco reazionario, il famoso campanile sul quale don Camillo si inerpicava per richiamare, al rintocco delle campane, i fedeli recalcitranti.
Parve, a noi visitatori occasionali, capitati lì quasi per caso, di rivivere i fasti di un passato che non esiste più, nel quale circolava poco pane, ma tanta lealtà, e nel quale comunisti e democristiani si affrontavano animosamente, ma con irreprensibile correttezza.
E il clima di fair play allora imperante pervadeva un po’ tutti i comportamenti umani.
Fernandel, ormai minato dal cancro, fu scritturato per girare il sesto film della saga, don Camillo e i giovani d’oggi. L’attore non sapeva di essere gravemente ammalato: i familiari gli avevano infatti nascosto la terribile notizia. E così, in una torrida mattinata di luglio del 1970 cominciarono le riprese del film, sotto la direzione del regista Christian Jaque, anche lui all’oscuro delle gravi condizioni di salute in cui versava l’attore. Pur tra i frequenti mancamenti, cui si unirono alla fine anche difficoltà respiratorie e dolori lancinanti al petto, Fernandel riuscì comunque a girare le scene per una ventina di giorni, fino a quando non fu costretto a lasciare il set il 5 agosto.
Si narra che Gino Cervi, per rispetto dell’amico ormai alla fine della sua vita – Fernandel sarebbe poi morto il 26 febbraio del 1971 – non abbia più voluto proseguire nelle riprese, nonostante mancassero ancora pochi ciak al completamento del film, il quale, infatti, rimase incompiuto.
Liberandoci a fatica dallo strano incantesimo che ci aveva avvinghiati nell’irrealtà di un paesaggio reso ancor più fantastico dall’aria lattiginosa dell’inverno incipiente, io, mia madre e mio fratello imboccammo finalmente la strada che porta a Modena, ritornando alla frenesia della vita moderna quasi come Troisi e Benigni nel finale di Non ci resta che piangere, quando videro passare la locomotiva progettata da Leonardo.
Siamo rimasti, però, tutt’e tre intimamente legati a quell’ora trascorsa insieme nel paesino della bassa emiliana, affascinati da un sogno ad occhi aperti – i cui contorni si stagliano ancora vividi nella nostra mente – vissuto fra le vestigia di un mondo ormai del tutto scomparso.
E ancora oggi, se chiedo a mia madre di farmi una lista dei posti più belli che abbia mai visitato, lei, con sicurezza, al primo posto cita Brescello.
Apprendere ieri mattina che il Comune del paese emiliano è stato sciolto per mafia, mi ha ferito profondamente.
È come se qualcuno avesse voluto cinicamente sfregiare il bel quadro di un rilassante pomeriggio trascorso nella serenità familiare e nell’illusoria sensazione di esser parte di una realtà fatta di immarcescibili valori.
Allora, sembrò a tutti noi che quelle statue nella piazza di Brescello, imperituri simboli di un’epoca fatta di uomini dal piglio deciso e dai comportamenti integerrimi, si affrancassero dalla loro eterna immobilità per ricreare il set fascinoso dei film degli anni 50 e 60.
E oggi, mi piace pensare che don Camillo e l’onorevole Peppone, prestando la loro anima alle statue che decorano con la loro presenza ingombrante i luoghi simbolo del paese della “bassa”, da eterni nemici si ritrovino ad essere, finalmente, fedeli alleati contro il malaffare e la corruzione, lanciando ancora moniti imperiosi dall’altare o chiamando a raccolta sulla piazza i compagni rimasti.
*avvocato
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