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COSTA PULITA | Gli Accorinti e il dramma di Tita: «La febbre gli è passata»

Il 14 marzo 2011 una donna si presenta alla stazione dei carabinieri di Nicotera Marina. È in preda al panico, ha in braccio il proprio bambino di appena 15 mesi. Vuole parlare con i militari, vuol…

Pubblicato il: 23/04/2016 – 10:39
COSTA PULITA | Gli Accorinti e il dramma di Tita: «La febbre gli è passata»

Il 14 marzo 2011 una donna si presenta alla stazione dei carabinieri di Nicotera Marina. È in preda al panico, ha in braccio il proprio bambino di appena 15 mesi. Vuole parlare con i militari, vuole raccontare di un omicidio, per cominciare, e poi di tanto altro. Dice di volere collaborare con la giustizia e di volere aderire a uno specifico programma di protezione dei testimoni. Questa donna sconvolta non è una persona qualsiasi. È Santa Buccafusca, detta Tita, 37 anni, ed è la moglie di Pantaleone Mancuso, alias “Luni Scarpuni”, il boss dell’omonimo clan del Vibonese.

LA DONNA DEL BOSS Fino a quel momento, con alti e bassi, Santa Buccafusca aveva rispettato il suo ruolo di moglie del boss. A lei, registrano gli inquirenti nelle indagini, venivano intestate ditte gestite dal marito. Come la ditta “Buccafusca Santa”, che si occupava della fornitura di caffè, diretta da Mancuso con la collaborazione di Nunzio Manuel Calla. Sarà quest’ultimo ad avvicinarsi al clan degli Accorinti, in rappresentanza di “Luni Scarpuni”, per trattare la fornitura del caffè nei villaggi gestiti dagli Accorinti. Il nome della Buccafusca contribuisce ad aiutare gli affari del marito quando i due sono ancora conviventi. È il caso della Helios Sas, una società che si occupava della gestione di un minimarket all’interno del villaggio Ventaclub di Nicotera, di cui Tita risultava socia accomandante. La quota societaria intestata alla Buccafusca verrà sottoposta a confisca nel 2005 dal Tribunale di Vibo in quanto annoverata tra i beni nella disponibilità di Pantalone Mancuso.

LA FUGA Due giorni prima che Tita si recasse dai carabinieri era stato ucciso in un agguato Vincenzo Barbieri, il narcos della criminalità vibonese, colpito in pieno giorno davanti a un tabacchino, raggiunto da proiettili al collo, alla testa, al torace. Un delitto violento, una spinta per Santa per recarsi dai carabinieri. «La donna – è riportato nelle pagine del fermo “Costa Pulita” che mercoledì ha portato in manette 23 persone legate ai clan vibonesi orbitanti intorno alla cosca Mancuso – spontaneamente decideva di riferire alcune importanti informazioni circa il grave episodio delittuoso verificatosi nei giorni precedenti a San Calogero, lasciando inizialmente trasparire la propria volontà di collaborare con la giustizia e di voler altresì aderire, con tale scopo, ad uno specifico programma di protezione».
Ma la mente di Tita non è serena. Dopo avere fatto mettere a verbale le sue dichiarazioni, tentenna, non firma il verbale. Ma, per quella notte, non torna a casa. Aveva, anzi, già telefonato a suo marito per dirgli che voleva collaborare con la giustizia. Trascorre la notte fuori, viene assistita da medici e psichiatri. Il giorno dopo c’è grande attesa da parte degli inquirenti e delle procure su quella firma.
Ma non solo. Intorno a quella decisione gli investigatori registrano un grande fermento e una certa apprensione anche da parte di altri soggetti.

L’APPRENSIONE DEGLI ACCORINTI In quel periodo gli investigatori stavano monitorando diversi appartenenti al clan degli Accorinti, legato ai Mancuso. Nel corso delle ore di presenza della Buccafusca dai carabinieri vengono registrate una serie di telefonate che hanno ad oggetto la volontà della donna di volere collaborare con la giustizia. Una scelta che preoccupa non poco. Le ragioni sono tante. Come quella captata tra Armando Bonavita e Francesco Marchese che parlano dei «precedenti rapporti che questi ebbero con Pantaleone Mancuso in presenza della Buccafusca e in conseguenza dei quali, per loro stessa ammissione, rischierebbero conseguenze penali non secondarie». Secondo i magistrati che hanno condotto le indagini, Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni, «le preoccupazioni per un possibile arresto, inconsapevolmente manifestate dai colloquianti intercettati, di fatto certificano il loro ruolo di sodali del clan Accorinti e la sussistenza di rapporti di collaborazione di chiara natura illecita con la cosca Mancuso». Le telefonate che si susseguono in 48 ore sono tante e «contraddistinte da un generale clima di allerta e preoccupazione per le possibili e pericolose conseguenze che potrebbero derivare delle dichiarazioni rese dalla Buccafusca».

TITA TORNA A CASA Ma la fuga di Tita dura poco. La volontà di portare via suo figlio da quell’ambiente in cui ci si ammazza con violenza, com’è avvenuto a Vincenzo Barbieri, si spegne. Le forze, soprattutto psicologiche, non reggono. E Tita torna a casa lasciando una firma a metà su quel verbale. Anche questa notizia si diffonde a macchia d’olio.

«SE NE RITORNA DALL’OSPEDALE» Dalle ore 11 del 16 marzo si scatena un susseguirsi di telefonate e di sms che, scrivono gli inquirenti, «comprovano l’interesse da parte dei sodali al clan circa la conclusione positiva dell’intera vicenda». Il linguaggio è criptato ma il riferimento appare chiaro. Si parla di una “febbre” che è passata, di un “ritorno dall’ospedale”, riferendosi alla passata volontà di collaborare e al ritorno a casa dalla stazione dei carabinieri. Il tenore delle conversazioni è sempre lo stesso: «Ah vedi che la febbre gli è passata; Se n’è ritornata dall’Ospedale; E vedi che hanno telefonato e dice che la febbre gli è passata».

IL SUICIDIO DI TITA Durerà un mese giusto giusto il ritorno a casa di Santa Buccafusca. Il 16 aprile 2011 Pantaleone Mancuso busserà alla stessa stazione dei carabinieri di Nicotera Marina dove lei si era recata 30 giorni prima, per denunciare il fatto che la donna «aveva ingerito dell’acido solforico e, per tale motivo, era stata inizialmente ricoverata presso l’ospedale di Polistena». Tita morirà all’ospedale di Reggio Calabria il 18 aprile. Anche dopo la sua morte le telefonate proseguiranno. Questa volta per organizzare le condoglianze da portare al boss rimasto vedovo. C’è chi non può andare di persona – come Pasquale Quaranta, all’epoca sottoposto a sorveglianza speciale e obbligo di dimora a Ricadi – ma manda nipoti, parenti, rappresentanti. Gli Accorinti si organizzano e dopo qualche tentennamento vanno a porgere i saluti alla salma a Reggio. Tutto ruota, ancora una volta, intorno a Santa Buccafusca, ma fittiziamente com’era con le società che le venivano intestate. La fuga era durata appena 48 ore.

Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it

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