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“Mala sanitas”, Tripodi punta il dito contro il primario

REGGIO CALABRIA Sono continuati oggi di fronte al gip Antonio Laganà gli interrogatori dei medici del reparto di Ginecologia e Ostetricia degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria coinvolti in “Mal…

Pubblicato il: 26/04/2016 – 21:09
“Mala sanitas”, Tripodi punta il dito contro il primario

REGGIO CALABRIA Sono continuati oggi di fronte al gip Antonio Laganà gli interrogatori dei medici del reparto di Ginecologia e Ostetricia degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria coinvolti in “Mala sanitas”, l’inchiesta che ha svelato un vero e proprio sistema di alterazione sistematica delle cartelle cliniche che per anni avrebbe coperto errori e omissioni, costati la vita o l’invalidità permanente a donne e bambini. A rispondere per oltre sette ore alle domande del giudice, come dei pm Roberto Di Palma e Annamaria Frustaci e del procuratore aggiunto Gaetano Paci, oggi è stato anche l’ex primario facente funzioni Alessandro Tripodi, considerato il vero e proprio punto di riferimento del reparto come del sistema di occultamento e alterazione delle cartelle, scoperto proprio grazie alle sue chiacchierate.

“GOLA PROFONDA” RISPONDE AL GIP Nipote dell’avvocato Giorgio De Stefano, considerato eminenza grigia dei clan e attualmente detenuto nel supercarcere di Tolmezzo, per questo Tripodi è stato a lungo intercettato dagli investigatori nel corso di un’indagine a largo raggio su Gioacchino Campolo. In questo modo, l’ex primario facente funzioni si è convertito in una vera e propria gola profonda del reparto di Ginecologia e Ostetricia, di cui ha svelato i più agghiaccianti segreti, coperti da un muro di silenzio e omertà. «Se da una parte non c’è reciproca fiducia nella professionalità e perizia dei colleghi, dall’altra – sottolinea il gip nell’ordinanza – vi è sostanziale “tacito accordo” nel “coprirsi a vicenda”».

«CHIEDETE A VADALÀ» Un accordo che le misure chieste dalla procura e disposte dal gip sembrano aver rotto, se è vero che proprio Tripodi, assistito dall’avvocato Giovanni De Stefano, ha risposto a lungo ed in dettaglio alle domande non esitando a chiamare in causa i colleghi. Di fronte a giudice e pm, Tripodi ha interloquito su tutti i casi di malasanità scoperchiati dalla procura, analizzandoli tutti cartella per cartella e non esitando anche a mettere in luce eventuali errori o omissioni commessi dai colleghi. Stando a quanto filtra, sarebbero soprattutto due i camici bianchi contro cui Tripodi ha puntato il dito, sottolineandone i ripetuti scivoloni. Ma l’ex primario non si sarebbe sottratto neanche alle domande sul sistema di alterazione delle cartelle. Quando Pasquale Vadalà era primario – non ha esitato a dire a giudici e pm – in reparto vigeva un ordine: tutte le cartelle relativi a casi problematici o a conclamati errori dovevano finire nel suo armadietto.

«MIA SORELLA E LA SUA FAMIGLIA SAPEVANO» Tutte accuse che toccherà agli investigatori verificare, al pari delle giustificazioni fornite dal medico in relazione al procurato aborto della sorella. Una necessità per evitare il rischio di setticemia per la gestante che mai dopo la rottura delle membrane avrebbe potuto portare a termine la gravidanza, ha sostenuto Tripodi, sottolineando come sia la sorella Loredana, sia il marito fossero stati informati della questione, pur non avendo mai espressamente prestato il consenso ad un eventuale aborto. Una ricostruzione radicalmente diversa da quella di inquirenti e investigatori, che ascoltando le conversazioni del dottore e dei colleghi che con lui hanno lavorato quel giorno, i dottori Manunzio e Saccà, hanno desunto che quell’aborto sia stato deciso autonomamente da Tripodi, fratello della gestante. La donna, ascoltata dai pm, ha del resto confermato di non essere mai stata informata dell’impossibilità di portare a termine quella gravidanza.

«SOLO UNA BATTUTA» Dettagliate informazioni il dottore avrebbe fornito anche in relazioni a casi in cui non sarebbe stato direttamente coinvolto, ma che – stando a quanto emerso dalle intercettazioni – avrebbe aiutato ad occultare, come pure sulla timbratura ad hoc del badge. Ascoltandolo, gli investigatori lo hanno più volte sentito affermare: «Quando lui fa in questa maniera, io lo sai che faccio? lo tengo sott’occhio e mando a Pina Gangemi a timbrarmi e a stimbrarmi il cartellino, se vuoi sapere la verità». Un metodo – secondo la pubblica accusa – per negare che fosse in reparto quando a Ginecologia succedevano guai, ma che per Tripodi non era che una battuta, una provocazione dettata dall’esasperazione di fronte alle pressioni del primario. Tutte indicazioni che gli inquirenti dovranno verificare, magari provando a riascoltare Vadalà, che venerdì scorso, di fronte al gip, ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere.

IL SILENZIO DI MAIO E LA DIFESA DI MUSELLA Stessa linea tenuta dalla neonatologa Mariella Maio, che assistita dall’avvocato Aldo Labate, ha scelto il silenzio. Ha parlato, ma allo stato non filtra nulla del suo interrogatorio, la dottoressa Antonella Musella, assistita dal noto avvocato Paolo Tommasini. Dalle conversazioni intercettate e in cui più volte viene tirata in ballo nelle conversazioni, per i pm emerge «la abitualità e la disinvoltura con la quale la Musella – unitamente ai colleghi del Reparto di volta in volta interessati da vicende di colpa medica – si adoperava per occultare alla paziente interessata ed ai congiunti della stessa le reali motivazioni delle complicanze insorte in seguito all’intervento, ossia l’errore in cui era incorsa l’equipe medica». Ma soprattutto, si legge nelle carte, la dottoressa – stando a quanto emerge già indagata o imputata in altri procedimenti per colpa medica – sarebbe responsabile delle gravi e permanenti lesioni provocate ad una paziente in seguito ad un maldestro intervento durante il quale si sono verificati il distacco dell’utero e danni a carico dell’uretere destro. « La sussistenza di tali lesioni – si legge nelle carte di indagine – si trae dalle conversazioni telefoniche intercettate, sopra sinteticamente illustrate, e il fatto che non ve ne sia menzione nel referto operatorio accluso alla cartella clinica attesta la consapevolezza e volontà dei medici operanti di occultare alla donna ed ai suoi congiunti la natura e l’origine delle complicazioni insorte nel corso dell’operazione».

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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