REGGIO CALABRIA Il passato torna a bussare alla porta dell’avvocato Paolo Romeo. E – forse – potrebbe portare con sé una contestazione molto più grave – e inquietante – dell’estorsione aggravata dalle modalità mafiose che gli viene attualmente mossa dai magistrati della Dda di Reggio Calabria. Monitorando i suoi spostamenti e le sue utenze, gli investigatori hanno scoperto che proprio a lui si è rivolto Mario Vernaci, per sollecitare l’assunzione di una persona presso la “Perla dello Stretto”.
Si tratterebbe solo di una richiesta come tante, assolutamente compatibile con il profilo di reale dominus che l’inchiesta “Fata Morgana” disegna, se non fosse che le generalità di Mario Vernaci sono esattamente quelle riportate nel passaporto utilizzato da Franco Freda, per la sua fuga in Costarica, dopo il periodo di latitanza trascorso a Reggio Calabria, grazie ai massimi esponenti della cosca De Stefano e dallo stesso Paolo Romeo.
IL LATITANTE NERO Avvocato, editore e ideologo evoliano, Franco Freda , dopo una discreta gavetta nel Msi, si converte nel capo carismatico del gruppo padovano dell’organizzazione di destra eversiva Ordine Nuovo. All’epoca dichiarava di dedicarsi all’«educazione delle anime», ma organizzava attentati; invocava la totale disintegrazione del sistema, ma intratteneva torbidi rapporti con uomini dei servizi. Condannato in via definitiva a 15 anni per associazione sovversiva e ricostituzione del partito fascista, sarebbe uno dei responsabili dell’attentato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Ma non per la giustizia italiana, come ammesso da una sentenza della Cassazione del 2005 in cui si legge che la strage di Piazza Fontana fu realizzata da «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», dichiarandoli però non più processabili in quanto «irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari».
«La responsabilità della strage di piazza Fontana – si legge in quegli atti – è di Freda e Ventura, anche se assolti nei procedimenti a suo tempo celebratisi a loro carico». Assolto per insufficienza di prove con sentenza passata in giudicato, dopo una condanna all’ergastolo rimediata in primo grado, non è più processabile per lo stesso reato. Ed è proprio quel processo a condurlo in Calabria. Le udienze – per questione di ordine pubblico – si celebrano a Catanzaro.
LA FUGA A REGGIO A far fuggire Freda nel ’78 e accompagnarlo a Reggio, secondo gli inquirenti, sarebbero stati due massoni legati ai servizi segreti: un ufficiale medico del Sismi, figlio di un amico del generale De Lorenzo, e un dipendente del museo di Santa Croce di Gerusalemme. Ma a gestirne la latitanza fu la ‘ndrangheta. Per incarico dei De Stefano, Paolo Martino, cugino prediletto di Paolo De Stefano, oggi curatore degli affari della ndrangheta al Nord e protagonista occulto di tutte le ultime grandi inchieste, prese in carico il terrorista.
A parlarne in dettaglio è uno dei primi pentiti di ‘ndrangheta, Filippo Barreca che ai magistrati racconta: «Un giorno giunse al distributore di benzina in compagnia di altra persona che mi presentò come Franco Freda. Lui veniva a nome di Paolo De Stefano e mi disse di tenere presso di me il latitante per un ventina di giorni, sino al momento in cui non fosse stato possibile trasferirlo all’estero. Durante il periodo in cui Freda fu nella mia abitazione, venne a trovarlo l’avvocato Giorgio De Stefano e l’avvocato Paolo Romeo. Sapevo da varie fonti che l’avvocato Romeo era massone e apparteneva a Gladio. Egli inoltre era collegato con i servizi segreti, ma non so dire in che modo».
Il superlatitante sarebbe stato ospitato da più ‘ndranghetisti prima di spostarsi a Ventimiglia, tappa di avvicinamento alla Francia, da dove avrebbe preso il volo per il Costarica. Ma prima di partire per il centro ligure, dove sarebbe stato ospite di un calabrese già segnalato in un vecchio rapporto della Finanza per i contatti con Freda e accusato da Barreca di essere al tempo stesso ‘ndranghetista e massone, il capo del gruppo padovano di Ordine Nuovo si sente in dovere si scrivere una lettera di ringraziamento ai componenti del clan De Stefano per l’appoggio ricevuto. Una lettera che finirà agli atti del maxiprocesso Olimpia, insieme alle confessioni di Barreca, un vero atto d’accusa non solo nei confronti della ndrangheta di cui è esponente di alto rango, ma anche della classe dirigente reggina.
DEVIANZE Una circostanza emersa già nel procedimento “Olimpia” e che all’avvocato Romeo è costata anche una condanna definitiva per mafia, ma su cui gli approfondimenti si sono fermati. Freda – hanno infatti svelato i pentiti – non è arrivato a Reggio Calabria per caso. Freda – hanno svelato, i primi e fra i più importanti pentiti della storia del contrasto giudiziario alla ‘ndrangheta, Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barrecca – ha avuto un ruolo nel matrimonio fra logge e ‘ndrangheta e nel progetto cui insieme hanno fatto da incubatrice. «Tutto avvenne – ha raccontato Lauro – in coincidenza con l’arrivo a Reggio dell’estremista di destra Franco Freda. Gli organizzatori della loggia furono lui e Romeo. Un’altra loggia con le stesse caratteristiche era stata costituita nello stesso periodo a Catania. L’obiettivo era comune: un progetto eversivo di carattere nazionale che doveva essere la prosecuzione di quello iniziato negli anni Settanta con i moti per Reggio capoluogo. Anche quello prendeva le mosse dalla stessa città e avrebbe dovuto investire tutta Italia». Di quella loggia – ha affermato in più contesti Lauro – facevano parte i capi della ‘ndrangheta dell’epoca (i De Stefano, Peppino Piromalli, Antonio Nirta) e neofasciti ed estremisti di destra ben noti in città anche per il ruolo avuto durante i cosiddetti Moti di Reggio, come Paolo Romeo (ex deputato Psdi condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr), Giovanni Criseo, poi ucciso, Benito Sembianza, Felice Genoese Zerbi.
VOLTI ALLE OMBRE Circostanze confermate da Barreca, che ai magistrati ha rivelato: «In Calabria esisteva sin dal 1979 una loggia massonica coperta a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, ‘ndranghetisti. Questa loggia aveva legami strettissimi con la mafia di Palermo, a cui doveva render conto. Una struttura di fatto costituita da personaggi eccellenti con la salda intesa di una mutua assistenza esisteva già da prima, e Freda si limitò a formalizzarla nel contesto di quel più ampio progetto nazionale che alla realtà reggina improvvisamente attribuì un ruolo di ben più ampio significato e spessore».
Un gruppo di potere sopravvissuto anche all’arresto del suo fondatore e che, secondo il pentito, avrebbe continuato a operare «sotto la direzione di Paolo De Stefano, del cugino Giorgio e dell’avvocato Paolo Romeo; questi, nella qualità di esponenti di primo piano della ‘ndrangheta in stretto collegamento con i vertici di tutte le istituzioni del capoluogo reggino. Cosa Nostra era rappresentata nella loggia da Stefano Bontade». Circostanze confermate da diversi pentiti siciliani e finite al centro di diverse inchieste che oggi – forse – potrebbero contribuire a svelare il reale ruolo dell’avvocato Romeo nell’evoluzione della ‘ndrangheta. A Reggio Calabria e non solo.
a. c.
x
x